Percorsi

Dico, con irrefrenabile impulsività

Dico, con irrefrenabile impulsività:

“Enormemente mi commuove, ogni anno,

la cerimonia in cui lo chef pro tempore

della Nazione rievoca le vittime

brutalmente scannate da soldataglie

in tutti i siti abitati del pianeta;

e, al termine, enunciando l’aforisma:

‘…Del che, nel nuovo clima da noi impostato,

non rimarrà che archeologica memoria

di storia che fu gestita maldestramente!…

Dunque, un dovere il perdono, stringer la mano

di qualsiasi carnefice (o magari del figlio…)

anch’esso sinceramente conquistato

dal nuovo afflato – retorico?…No! – ufficiale!… ‘ “

 

In solitaria marcia poi mi inoltro,

stagionato viandante, vispo wanderer,

nel paesaggio toscano, nella eletta

Lucchesia, per me sempre radiosa alcova

in cui spira, stremata sorridendo,

di nuovo puerpera, Ilaria…

In controdanza

insorge allora in me il gemello diabolico

e strepita lungo il pendio che dà a Sant’Anna

di Stazzema:: “All’ipocrita maneggio

del prete e del politico frappongo

spavaldamente questa mia esigenza:

sapere cosa passa ora nel cuore

del milite che sventrò la donna incinta

e sul suo feto infierì come Neottòlemo

sul fanciullo Astianatte; poi, fischiettando,

ricongiungendosi alla bella truppa

di intrepidi camerati in tenuta azzimata…

Come pettina oggi il capello bianco?

In quale tinta sceglie le sue camicie

e cravatte, come te mite pensionato?…”

 

(Lucchesia, 25 maggio 2005)

 

Anch’io sono attento alla voce delle pernici

Anch’io sono attento alla voce delle pernici,

kakkabìdon òpa sunzèmenos (1), Alcmane;

intendo bene il loro espandersi, rispondersi,

afferro il senso della loro elementare prosodia;

da esse ho appreso che il nome delle cose

è sonora onomatopea del loro esistere,

che ciò che ben consiste nella natura –

cosa anche inerte o dinamico esperiente –

fa che trabalzi il suo titolo sonoro

ad ogni volta del rondò vitale.

 

Ma questo per me avviene in un mondo già eroso

da un fitto stuolo di miei simili vanesii,

e dunque per più vibrante virtù del me singolo

che rischia incomprensione, dileggio, equivoco;

e dunque dovendo disporre un severo rituale

che recito quando, salendo la balza, incontro

il grande masso sospeso, il possente albero,

spigoli e fronde che intonano poemi

se un vento provocatore li tocca o attraversa.

 

Dinanzi a tre giganteschi faggi, ieri, mi sono

inginocchiato; e ho reso omaggio alla loro possanza,

al loro vigore: “Gloria a voi Venerandi! – ho intonato

a voce spiegata, palpando la scorza rugosa,

poi la propaggine estrema di uno dei loro rami

che pencolava nitida nell’aria montana –

Degnatevi di accogliere la lode che del vostro

disinteressato presidio di questi luoghi elevati

fa un modesto usufruttuario di quei benefici

di cui anche godono miei simili irriconoscenti!..”

E poco più innanzi, scorto un nuovo virgulto

emergere verde oltre lo sfasciume sulla cicatrice

di un altro enorme tronco là dove, per anni,

usavo trascorrere con devota compunzione

tra altri giganti durati raccolti in un avvallamento,

come una famiglia di titani: “Che l’erede

di cui già scorgo la sagoma snella stagliata

contro l’azzurro intenso del cielo limpido possa

crescere e durare decenni come il padre!…” ho

augurato, di nuovo ammirato prosternandomi.

 

Anch’io dico, Alcmane: “C’è, sì, una punizione degli dei;

o d’òlbios òstis èufron amèran diaplèkei àklautos. (2)

Ma so che molto tempo è trascorso dal tuo consolo.

Vedo che i capelli di tua cugina Agesicòra

più non fioriscono come oro puro, nel candido viso

la gota appare sformata dal gommoso bonbon,

né più così belle appaiono le sue caviglie.

E Aghidò che tu dicevi seconda per bellezza,

correva come un cavallo colasseo dietro un ibeno,

ora farfuglia e zoppica, usa chiassosi cosmetici.

 

E tinge i capelli con tossici intrugli Nannò,

e la bellezza di Arèta è sfumata in un lustro.

Né Tulachìs né Cleesitèra hanno più il garbo di un tempo.

Eppure non lugubre né funesta, credimi, è la mia

visione del mondo in questa stagione. A me sembra

che quanto rendeva leggiadre le tue coreute una volta

ora fa uniche amabili quella che ha nome…Arrète

e quella che già chiamavo Edairetè, sua sumpàiktria… (3)

E’ ben per esse che duro nel mio corso equivoco

e anche azzardo questo stile nuovo, ironico e mite.

 

(21 aprile 2005)

 

1) attento alla voce delle pernici

(2) beato chi è saggio e trascorre il giorno senza pianto

(3) compagna

 

Eredi di dèi gaudenti e compromessi

Appena concluso l’abbozzo la bella intuizione

ti sembra da te tradita con mano incerta,

i segni sul bianco supporto ti appaiono appena

indizi precari di una entusiastica infatuazione

toccata a un bimbo appena destato dal sonno,

balenata a un anziano ormai smagato e scettico.

 

Eredi di dèi gaudenti e compromessi,

infaticabili trasvolatori tra mare e cielo

e indifferenti ai terrestri residuati

del loro ardimento ginnico e dialettico,

ne tentiamo caparbia imitazione,

di cibi degradati facciamo alimento.

(19 aprile 2005)

 

Avere sorpreso in un libro il minuto disegno

Marchio che sul mio animo di fanciullo

impresse la naturistica fascinazione,

il quotidiano tripudio della gente di Borgo,

vitale di estemporanei impulsi, persino

brutali contro i retaggi mattutini

di solitarie fantasie, di idilliaci sogni

in cui l’immagine materna risolveva drammi.

 

Megere accoccolate sugli scranni

di legno e paglia, per intere mattinate

interi pomeriggi spettegolare, tessere,

sorvegliare marmocchi in giuochi rustici,

riprenderli volgarmente, farli bersaglio

al tiro di una loro fetida ciabatta.

Allegri carrettieri travasare vini

provenendo da leggendari colli

e mescerli con facezie grossolane

su gente e cose incontrate per via.

 

Figure che il me fanciullo palpeggiava

inconsciamente già con le palme aperte

delle mani e che già nei loro solchi

traevano sostanza per tradursi

in personaggi nel quadro raffaellesco

dell’Incendio, nel vortice frenetico

del Trittico sonoro berlioziano.

 

Sorrido ora al ricordo del satanico

sberleffo con cui il monello inerpicatosi

dalla strada sulla grata della finestra,

irrise quell’infantile scolaresca

di cui già mi sentivo alfiere compunto.

Sorrido di quella paurosa comparizione

che fece in un mio notturno febbrile incubo

imprecando mio padre, seminudo e

in equoree distanze, sommative

di palpiti personali e di ancestrali

esperienze diversamente scarificanti

altri sensi in difformi inclinazioni

della luce solare, nella trama

dei voli rondineschi, degli effluvi

odorosi precisi in scadenze lunari;

tavola pitagorica l’intonaco ocraceo

del muro opposto di un angusto vicolo.

 

Avere sorpreso in un libro il minuto disegno

di te, Empedocle, precipite nell’abisso

mi fu già allora lezione persuasiva

che quando ti possiede orgiastico amore

della natura sei destinato a dramma;

che scontrerai il vicino col tuo parlare

e il tuo scrivere, il tuo accudire al corpo

e alla mente con una ascesi quotidiana

indifferibile, esatta e scrupolosa,

insonne; che la tua tragica deriva

potrebbe un giorno irridere la madre

già stata vertice ardito di impulsi incestuosi.

 

(11 aprile 2005)

 

Sapere che ti soffermi o anche ritorni

                                      (…bàle dè bàle kerùlos èien!…)

 

Sapere che ti soffermi o anche ritorni

su una pagina mia questo rinfocola

ora gli estremi barlumi del mio ingegno,

di quel cordiale impulso che è il mio naturale

bene nutrito dal verbo di alcuni saggi.

 

Vale per me più che l’applauso reso,

mentre sprofonda in abissi immemorabili,

da una folla appagata e ben sedotta

ai campioni togati e incravattati

in auditori di stordente acustica.

 

Così finché il mio orecchio saprà cogliere

il verso della pernice e fluirà dal corpo

impastoiato qualche mio messaggio

ben sia che, corso lo spazio che ci separa,

esso risuoni tò t’argùrion pròsopon (1)

come lo strido del cerilo di Alcmane

tu essendo alcionessa ultima, ma non tarda,

nello stormo allora ormai alipòrfuros…(2)

 

(Lunedì 21 aprile 2005)

 

(1)  il candido viso (di Agesicora); da un partenio di Alcmane

(2) color di conchiglia, di porpora; da Alcmane: Il cerilo

Dove credevi poterli ancora condurre, Alessandro?…”

(“…Ma gli abitanti del Nisa negano che Alessandro fosse salito sul monte: egli ne aveva bensì l’intenzione, in quanto era ambizioso di gloria e fanaticamente appassionato delle antiche tradizioni; ma temendo che i Macedoni nel passare accanto alle viti, che ormai da lungo tempo non vedevano, fossero colti dalla nostalgia della patria, oppure provassero desiderio di vino una volta che si erano ormai abituati a bere acqua, oltrepassò il Nisa levando preghiere a Dioniso e sacrificando ai piedi del monte.” – Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, II, 9)

 

Dove credevi poterli ancora condurre, Alessandro,

i tuoi istupiditi macedoni? Il clima si era fatto pesante,

ormai le armature gravavano loro troppo le spalle;

attorno ai fuochi, la sera, in tono dimesso recriminavano

sbocconcellando derrate che avevano in molto sospetto;

troppo spesso giunti a una fonte o alla riva di un fiume,

potevi scorgerli nudi detergersi, trascurare la guardia.

A cosa è valso vietare loro di ascendere al monte Mèros,

frenare la tua personale ambizione allora, la tua tentazione

di scorrere, palpare con mano i lunghi filari di viti

con cui ne aveva guarnito le pendici e la vetta

l’uno o l’altro dei due leggendari Dionisi un tempo?

 

A te hai precluso l’ebbrezza di un’orgia salvifica

infine liberatoria, forse, da quei frenetici impulsi

che Nectanebo aveva dagli astri tradotto con magica arte

nel punto in cui toccasti terra cadendo dal ventre materno;

ai tuoi hai voluto evitare la vista dei pampini

di cui smarrita avevano la cordiale memoria,

frenare il nostalgico morso di quanto una sbornia riafferra

nella penombra aromatica di dimore ben accudite.

In quella tua così accortamente studiata rinuncia

avresti dovuto già leggere che sull’impresa incombeva

la Moiraghignante, che già Melusine ed Arpie

avevano buona confidenza con la tua truppa sbracata.

 

(30 marzo 2005)

Dico – ma con fatica rassettandomi

Dico – ma con fatica rassettandomi

abito, aspetto, e tono di uno scettico -:

“Sarà appena forse in te ora emersa

vaga memoria di lettura antica

di un sonetto di Shakespeare; e così tenti

di convincer qualcuno che è tuo l’aforisma

persino adatto a melliflui adescamenti:

 

‘Ciò che infine l’amante dona all’amato

ad alcun altro del consorzio umano

lo sottrae. Era da sempre nel suo cuore

riposto, in tenace attesa dell’amato;

e quando è entrato nel cuore dell’amato

invano a quella porta il tempo strepita

mentre rifulge di luce memorabile’ “

 

E’ come quando talvolta bene avverti

che forse stai trascorrendo troppe giornate

di inutile commercio di parole

e di gesti con gente inaffidabile;

e poi si snoda improvvisa, nella mente,

la curva ardita di un poema convincente

né può infrenare alcun rispetto umano

il suo fluire come rivo alpestre!

 

(Cori, 18 febbraio 2005)

 

Motto di un maturo amatore armoniano

E sì, come non mi ammaliassero già abbastanza,

quando al mattino esponi al vento e al sole

il tuo bucato perché presto si asciughi,

tutti i vispi colori della tua

biancheria personale!…”

(Mercoledì 29 dicembre 2004)

Clou vorticale di un certo suo chef d’oeuvre

Non furono  maschi traci che tatuarono

le Menadi per punirle dello strazio

fatto di carni del Cantore Eccelso?

Bene, ora stanno silenti e radicate

in materna effusione con branchi porcini

né più in corteo promiscuo e forsennato

scorrazzano per contrade ventilate.

Ma di’: “Quale profitto ci hanno acquistato?…”

“ Appena la certezza che né i misteri

di Dioniso né quelli  a cui tributava

ossequio il tracio Orfeo dalla vetta,

ogni alba, del Pangeo selvoso

oggi risolverebbero i nostri dilemmi

su quanto è conveniente al sopravvivere

in un pianeta che con cieco arbitrio

è stato abraso, da ère immemorabili!…”

 

E dunque non schernirmi, non dare in sarcasmi

se provo a raffigurare il mio incontro col Musico

osannato, glorioso

a parole saccente futurologo

ma asmatico e dispeptico pedone

nel fatto quotidiano, tre decenni

prima di oggi: sorpreso a perlustrare

mescite appena appena svuotate dagli

urbani tracannatori alticci e arzilli,

pretendeva pasteggiare nel silenzio,

inconsueto in quei profani templi,

il crepito più formoso ed adescante

che vitree damigiane, fiaschi, ampolle

dànno se infrante da magistrale verga;

clou vorticale di un certo suo chef d’oeuvre

 

(1 settembre 2004)

 

…è che il calamo duttile

rende lo sgorbio utile…;

e tu prima, Piranesi,

ammonisti: “…col sporcar si trova!…”

 

(Annotazione che rinvengo affacciata sul margine destro e in alto di una pagina ingombra di schizzi estemporanei, probabilmente eseguiti, viaggiando in treno, su uno dei piccoli taccuini che reco con me quando mi sposto a piedi o con qualsiasi altro mezzo)

Di quello che il Dio esige

Incontro Perseo in una glossa di Graves,

arcobaleno di albionica saggezza

sulla mortificante filologia

di una deprimente tradizione

mal rabberciata in questi ultimi decenni

che ha trascorso il mio Genere nei rischi

di catastrofi immani congegnate

con stupida masochistica acribia.

 

E calco le peste di Perseo in più degne imprese,

mi attento a tempestiva ammonizione

del titolo che merita la sua gesta.

 

Perseo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Epefnèn te Gorgòna, kài poikìlon kàra

drakònton fòbaisin èluze nasiòtais

lìzinon zànaton fèron…” (1)

               

…e poi, mentre superava da nord la costa

della Filistria, vide una donna ignuda

incatenata a uno scoglio presso il mare,

e subito fu preso d’amore per lei.

Era essa Andromeda figlia di Cefeo,

il re etiope di Joppa, e di Cassiopea.

La madre si era vantata un giorno che

neppure le Nereidi cilestrine

avrebbero potuto reggere in gara

di bellezza e di grazia con lei e la figlia.

Offese per l’oltraggiosa protensione

e per la temeraria conclusione

avevano fatto appello a Posidone,

allora, le Nereidi; e il dio del mare

aveva flagellato quel paese

con mareggiate furiose, incursioni crudeli

di un mai prima veduto mostro marino.

Cefeo, allora, sconvolto, consulta l’oracolo

di Ammone; e impone l’oracolo che Andromeda,

esposta nuda e ingioiellata, sia

abbandonata e offerta in pasto al mostro.

Scaltro si accorda Cefeo con Perseo che

a Perseo tocchi Andromeda; premio, se

Perseo la libera, dell’impresa ardita

che infatti l’eroe compie …”

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

                        Bellerofonte

 

Ma poi imbriglia Pegaso, cavallo alato

balzato su dal tronco della Gorgona,

Bellerofonte, presso la fonte Pirene;

con un finimento aureo, dono di Atena.

Serve Iobate di Licia, uccide il Mostro

dal pestifero alito, mistura infida

di leone di capra di serpente: Medusa;  (2)

combatte i bellicosi Solimi, le Amazzoni,

alto volando fuori dal tiro delle loro frecce.

Poi quando, tradito dal regale ospite,

invoca Posidone, e il dio scatena

le acque dello Xanto in paurose ondate,

scorte le donne xantie offrirsi a lui

succinte e terrorizzate, forse invasate

dall’erba hippomane o dal liquido vischioso

di cavalle in calore, china il capo,

eroe misericordioso, e si ritrae…   

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

                       

San Giorgio

 

Infine, quando da dietro una nube vedo apparire

di nuovo un cavallo alato e il cristiano San Giorgio

ancora una volta un Mostro affronta

e in una ancora martoriata Beirut (3) libera

una regale fanciulla sequestrata dal Drago:

“Ancora la Gorgona – strepito – ancora

la Chimera proterva e deludente, mostro

recidivo, gestore di gelosia, invidia, forse?…”

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Vegliardo incompreso, disinvoltamente privato

di qualche merito e credito (oh, ma sapiente

di questo: che il registro del mio dramma,

che il tono del mio poema, intralciano

la vostra ordinaria acquiescenza

a quello che i Despoti impongono!…)

a piede del foglio  su cui lo ritraggo, il Santo,

traccio, tramato di esperienza e studio,

il motto che il saggio impulso sincretistico

mi impone:

“…Ma se, indotti

da fourieriana scepsi, vi induceste

a interpretare la leggenda come

mascheratura pudorale della

redenzione di un erotismo femminile

– o maschile, o anche androgino, o ermafroditico…-

assurdamente segregato, stivato in ghetti,

in ginecei, in harem, sorvegliato

da esangui, invigliacchiti eunuchi, fustigato

da luridi maneggioni della tratta,

schifato dai sonnacchiosi abitudinari,

la pensereste perciò meno apprezzabile

l’impresa di quegli eroi, di quel vostro Santo?…”

 

Per me essi sono Araldi del Dio che ammonisce:

“Prestate soccorso a quanti i Despoti Clanici

vietano effondere naturali impulsi e aneliti!…”

Oh, sì: “Emòi de zaumàsai zeòn telesànton

udèn pote fàinetai èmmen àpiston…(4) 

Nulla mi pare incredibile, mi fa meraviglia,

di quello che il Dio esige!…”

(Cori, Fontana Mandarina, maggio 2004)

 

(1) (Pindaro, Pitica X, 46-48): “…uccisela Gorgone e tornò portando la testa ornata di serpi, la morte di pietra…”

(2) (Esiodo, Teogonia,319 segg.; Pindaro, Olimpica XIII, 63, segg.                                                      

(3) Secondo una tradizione locale una cappella trasformata poi in moschea, a Beirut,  segnerebbe il luogo in cui sarebbe avvenuto il confronto tra San Giorgio e il Drago; quella architettura, e il paesaggio circostante ad essa, sono anche rappresentati in icone orientali dei secc.XVII e XVIII.

(4) (Pindaro, Pitica X, 48-50): “Niente mi meraviglia, niente mi pare incredibile di quello che compiono gli dèi”