Percorsi

Ora finalmente potrà spavaldamente

(umorosa concione di un mio personaggio)

 

Ora finalmente potrò spavaldamente

strepitarlo – dall’alto terrazzo arioso

sullo spettacolo astruso della Città –

che io, io avevo ragione, non loro!

Io, il solitario trascorritore di montagne deserte,

Io, il centellinatore delle umorose quisquilie

di ingenui volanti che con disgusto scorrevano

tra sparatorie di sanguinari despoti;

perciò sdegnando i verbalismi inconcludenti

come i melismi flemmatici ed anodini,

la lega del battagliero strepitante

contro il massone faccendiere tenebroso!…

Attraversando naturistiche utopie;

mai consultando farmacista e medico

del crocicchio vicino, ho disertato

gli Auditorii che crepitano di applausi

resi al prestigio di questo o quel suonatore

però spolpato del fascino che spirano

sui madidi spartiti i panorami;

io, il ciclista silenzioso su polverosi sterrati

radianti dalle autostrade sempre gremite

da folle di forsennati tachìmani in ferie,

infine, con piglio serioso e sonoro inveisco:

“Saldati pur senso parola figura suono,

la simbolica arte resta inerme

e inerte. Dobbiamo inaugurare

ogni giorno, con puntuale ascesi

rioccupando il cerchio fisiologico

del personale stato provvidenziale,

l’atto per cui una fertile vivipara

ha come ritratto in un proprio quadro

l’inesauribile potenza della zolla,

in sé ha effigiato il seno della Natura!…

Ora, ora che i ruminatori di pettegolezzi astiosi,

i maniaci ingorgati di pietanze folli,

ora che i praticanti tabacco e droghe,

ora che i distratti sorvolatori di oceani

e di deserti, di gioghi andini e himalaiani,

seppure imperturbabilmente celebrati

da agiografi mestieranti in chiese e in senati

come talenti bruciati da passioni comunque

alla lunga gratificanti per l’intero Genere,

si sono amalgamati in asmatica polvere

che turbina e che prostra nelle canicole…”

 

(Domenica 8 marzo 2009)

Abbiamo anche noi trascorso molte stagioni

Come scarruffata eppure esilarata

per le delizie che ha assaporato

nell’animale orgia primaverile

esce dalla fratta la vergine che

ha infine ceduto alle insistenze

del corteggiatore imperterrito

così a novembre appare la fronda dell’ulivo

quando infine l’ultima oliva è riuscito a frugare

la mano avida di chi ha accudito la pianta

nelle trascorse stagioni e fin nell’afa estiva.

 

Abbiamo anche noi trascorso molte stagioni

della durata cosmica e del corso civile

del borgo, della City, della nazione, della casa;

e se anche la bruma autunnale ora stempera la memoria

degli irresolvibili crucci del pudore faticato,

di resistenze irragionevoli, di slanci irresponsabili,

stiamo io e la pianta ben decisamente infissi

nella Storia che Eva ha deciso corressimo,

Eva la nostra grande intraprendente Madre,

convinta dal Demonio a curiosare nel creato!…

 

Sì, di tutte le passioni della gamma

che il grande Scolarca Fourier ha, una volta

per tutte, scandagliato abbiamo marcato

il segno sulla pelle e nel cuore. E dico che

dovremo ostentarlo con orgoglio di terrestre

questo effetto della nostra esperienza quando

in Giosafat un Giudice magari anche

poco opportunamente severo vorrà

incalzarci con infuriate inchieste

su quanto abbiamo preteso ed estorto dal creato.

 

E in quale angolo della affollata Valle sarò allora

io, io che nel Giardino-dei-sogni-che-ben-premoniscono

ho così tante volte udito e scorto e applaudito, librato

nell’aria, fulgente nella sua montura

papiglionacea, il mio Maitre e tender la verga

verso Fakma per ammmonirla, la sua Pupilla

spregiudicata, volitiva e sensualmente prodiga:

“Fa’ tu, tu eletta Sovrana nel Turbine di Cnido,

che infine si convinca Minosse – e convinca la City!…-

che gli atti di Pasifae e di Fedra li segna ‘legittimi’

il Codice naturalistico e fisiologico!…” ?…

 

(Cori-Fontana Mandarina, 7 novembre 2008)

 

Dall’oltrevita ai dinamici ed assorti (o: Che qualche segnale pure potremo porgere)

Lunedì 12 maggio 2008

 

Recuperati questi versi del 1993, li trascrivo qui:

 

Dall’oltrevita ai dinamici ed assorti

o anche:

Che qualche segnale pure potremo porgere

 

Se in cielo discreto sorto un quarto di luna

e temerariamente marcio nel bosco

appena conosciuto, tra echi di acque

ruscellanti e cascate, dinanzi il monte

loro patriarca generoso e ossuto

pende come un velario colossale,

però, sul mio passo ritmato, effluvi densi

il groviglio dirama sul mio alito

cordiale, forse una monade goethiana

per tempo ha volteggiato lungo il sentiero

in cui accendono fremiti le lucciole

o, penetrata con graditi vini

nel mio tenace organismo, mi convince

che qualche segnale pure potremo porgere

dall’Oltrevita ai dinamici ed assorti,

dopo smaltiti i iemali appostamenti

nelle suburre fetide e fumose?

 

(Armona-Susa, 25 giugno 1993)

Aprire l’ultimo forziere dei miei estri

Vado lungo la pendice del monte.

Tutte le evenienze possibili sembrano protendere

tentacoli da oltre la linea netta del displuvio;

e sento che ribolle e si agita nelle mie vene

lo stesso impulso che dovette invadere le vene

dei due briganti estremaduregni –

l’uno, il seviziatore del mite Montezuma,

l’altro, il massacratore spietato

del mite Atahualpa -, quando decisero

di puntare al tesoro degli Aztechi,

all’oro di Potosì, della leggendaria Golconda

peruviana.

Avanzo nel gelido inverno

in spazi ora limpidissimi ora tempestosi,

ma non temo altezze stremanti,

turbini di pioggia o di vento.

Giunto vegliardo in cima all’erta

mi trovo dinanzi a una porta

rilucente di iridate faville.

Posso volgere in suoni ogni parola del mio poema,

sposare la voce che legge con quella che canta.

Anche per me forse comparirà, a giorni,

il figlio del vostro dio nuovamente

su questa terra, e qualche vagito

filtrato nella sua voce argentina sarà

la chiave con cui si potrà finalmente

aprire l’ultimo forziere dei miei estri.

(21 dicembre 2007)

Quando Eros insorge / Lui forse è il dio mendicante / Domani brillerà sufficiente sole

18 dicembre 2007. Recuperati da un deposito di inediti i tre componimenti seguenti.

 

Quando Eros insorge

 

Quando Eros insorge

e frusta coi fianchi flessuosi

la bianca campagna invernale

e nel nitore dei profili inerti

insinua i fremiti di primavere greche,

borbottii favolosi del clan di Lesbo

(fainetàimoi kènos ìsos zèoisin

emmenòner òttis enantiòstoi isdàinei

kài plàsion àdu fonèisas upakùei!…), (1)

la rana casalinga e paesana farfuglia,

dentro il cespo di acanto fiorito improvviso,

come nottambula in travagliato dormiveglia,

di gelosie, ultime esche alle energie

rimaste dopo lo sguardo, il bacio, il coito,

dopo i discorsi e i canti di esordio e di chiusa

incisi in alabastro salgemma e quarzo

e poi esposti alle viste miopi

dei rassegnati, al crivello degli scettici…

 

Quando Eros insorge

e stana dallo stillante scoglio

il cerilo capriccioso o impigrito

e nella mente insinua e aizza il tarlo

perché escogiti musiche esilaranti

e irripetibili versi cardino l’aria

(oh, allora, sì, ci sfiora il dubbio che l’accademia

possa almeno raccogliere l’eco di emozioni autentiche

sui carri cerimoniali e nei tabù nevrotici!…)

io mi rammento che il dolore sempre

prostra alcuni, altri rende più forti e nobili

e fertili. Questo messaggio di solidarietà

posso offrirvi: tutto ciò che una volta vi è mancato

può traboccare domani dalle tasche

di un vecchio abito di esiliato; profumeranno

le mani le bizzarrie di cui disponevate

per i vostri giuochi infantili, per i vostri

esuberanti sogni giovanili!…

 

Quando Eros insorge

e frusta coi fianchi flessuosi

la bruna dolomite dei nostri orgogli,

– e li poniamo nelle pagine festive

nel libro di familiari fotografie

con quale tenerezza verginale!…-

(“Ecce deus fortior me, qui

Veniens dominabitur michi!… D’allora innanzi

dico che Amore segnoreggiò la mia anima!…”),

io nello sfavillio di un diamante azzurro

con occhio di rapace vado esplorando

immagini di un  s u o  tempo ormai remoto

in cui non ero nel  s u o  cerchio magico,

con ali di libellula percorro

i  s u o i  affetti intermedi, magari mediocri,

con questa voce di fanciullo approdo

nel  s u o  orecchio guardingo, nel  s u o  cuore

corso da impulsi nuovi, squassato dai dubbi…

 

Quando Eros insorge

e frusta coi fianchi flessuosi

la tetra mediocrità della fabbrica umana

enorme, triviale, flaccida, maleodorante,

e nel teatro ci si pigia e ingiuria

nell’ansia di afferrare il verdetto morale

(ah, studiate da quali personaggi

giunge più persuasiva la voce ammonente

che il Fato da lungi tonante stana e incita!…)

io posso profetizzare una vita migliore

a quanti mi stringono la mano

o dal buio mi chiamano con orgasmo

sperando o sull’argilla della Noia

hanno saputo plasmare un idolo o un simbolo,

hanno affilato la virtù spontanea

nel vortice delle trombette petulanti:

“Sì, Amore accompagna da nascita a morte, sì;

ma si fa manifesto sulle vette!…”

 

(Roma 18 dicembre 1971-23 settembre 1972)

 

(1) – Saffo: “Mi pare uguale agli dei  l’uomo che ti siede di fronte e da vicino ascolta la tua dolce voce…”

 

Lui forse è il dio mendicante

 

Lui forse è il dio mendicante

ermetico, dimesso, primo grappolo d’uva

pòrto al gusto interdetto del fanciullo.

Lui tutte le tradizioni dicono giunge al crepuscolo,

bussa alle porte di case colme di tepore

per patrimoni sostanziosi e pietanze gradevoli,

forbice che apre i sentimenti tessuti

in terre su cui le ombre si stagliano nette

lungo le vie selciate, entro i boschi, nei giardini…

 

Lui forse è il dio mendicante;

lui attraversa gli itinerari dei terrestri,

lui sorprende le bocche ridenti, gli occhi che ammiccano,

lui origlia alla porta dell’umile, lui sopporta  la rampogna

dello scettico che gli porge l’obolo ma lo irride.

Bianca è la spuma del mare; nei romanzi plana

la virile emozione in punti imprevedibili;

bonacce e uragani così sorprendono

nave che si orienta decisa tra due continenti.

 

Lui forse è il dio mendicante;

è lui che sprona le intelligenze dei rassegnati,

è lui che colma di sogni utili le notti dei solitari,

è lui che vendica i sessi delle spose trascurate.

Lui si farà specchio dei tuoi ricordi e rimorsi:

sequestrerà il tuo dèmone personale

quando la civetta si leverà declamando alle tenebre,

dalla catasta dei legni tarlati,

la lista dei poteri non spesi o mal spesi!…

 

(Roma, 4 giugno 1973)

Domani brillerà sufficiente sole

 

Dinanzi all’eternità che la notte disvela,

stelle infisse sulla lettiera del pudore

con mille orgasmi, piedi sgattaiolanti

fuori dell’humour finale del Guitto,

che vale domandarsi: “Sono ubriaco

o sobrio?, allucinato o sognatore?,

razionale o fantastico?…”

La grafia

dobbiamo interpretare! La grafia

trova convincenti argomenti, si  districa

nell’ora tarda, nel ricordo compromettente.

 

Per questo dunque mi accingo a governarla,

la mia grafia, in procinto di assopirmi

nel dolce ricordo di Donna molto amata

se anche non posseduta. Essa di molti

gesti sa ben esporre testo e glossa.

 

Ah, sì, davvero aprile è un mese crudele,

Madame Sosostris, nelle lande boreali

del pianeta raffredda i corpi e la poesia

stirring dull roots with spring rain; (1)

e un anno ha preteso suicida un Majakovski,

l’anno del vostro Dio millenovecentotrenta,

quattordici di aprile! (Io non avevo

ancora compiuto un anno del mio esistere).

 

Ma ora che ho in mente ben allineati i segreti

crivelli della mia indole semitica

utili a circuire e ingannare i miei ospiti

occasionali riguardo all’ora del mio rientro

notturno nell’albergo, riguardo al sapore

delle pronuncie longobarde che le mie

guide turistiche hanno preteso impormi?…

 

Domani brillerà sufficiente sole

perché tu possa proporre il tuo divorzio

con gesto disinvolto, spediti argomenti,

alla sposa che rifugge dal procreare

non perché  abbia utero ormai fatto avaro

ma perché ha avari cuore, casato, razza…

“What you get married – ti basterà dirle –

for if you don’t want children?”(1)

 

(Cortona, 14 aprile 1974)

 

(1)  Th. Stearns Eliot –La Terra desolata

Madame Sosostris a famous clairvoyante, acrilico su tavola, 70×100

 

Dietro di noi è restata l’Utopia

Dietro di noi è restata l’Utopia,

tramata entro dialettiche zoppicanti

in ingenue espansioni sentimentali;

ed ora tentiamo l’utile, non l’attraente,

leggiamo con sorriso divertito,

in biblioteche ben sterilizzate,

pagine ròse o ammuffite di Charles Fourier…

 

Ci fu un tempo in cui il reale maturava

con naturale lentezza. Dipingevano

i pittori ritratti e panorami,

fisionomie e paesaggi maturavano

senza temere appassimento o intrighi

di cerebrali pretesti o sociali profitti.

I musicisti confidavano nei motivi

robuste analogie del momento e del luogo

eloquenti per tutti, convincenti dovunque;

i poeti, compiaciuti del conforto

immediato di trepide parole,

spingevano l’opinione in alte volute,

i ricatti teocratici in fantastiche sfere…

Quante volte un Monet avrà chiesto con garbo:

“Lasciate ancora, vi prego, su quel tavolo,

quegli oggetti e quei frutti che la vostra

esistenziale incoscienza ci ha accalcato.

Non ho ancora ben chiare le velature

che ben manifesteranno la mia intenzione

nella tela in cui li ho precipitati…

 

(Martedì, 11 dicembre 2007)

A un tratto del tuo corso emozionale

A un tratto del tuo corso emozionale

ormai distante da domestiche ansie

e idilli scopri che al personaggio infine

stai, entro un fosco autunno, attribuendo

quella meteoropatia da cui eri stato

ben tartassato in decenni dopo l’infanzia.

E poi che questo ha reso la tua poesia

utile almeno a chi si intenda a leggerla

dopo serrata l’imposta al vario strepito

dei jongleurs epocali, alle maliarde

frizioni degli Effimeri, ai droganti effluvi

di Occulti Persuasori stanziati in pretorio,

di acidi Bacchettatori in cornu epistulae

Se entra nel dettatola Salariata

esausta e irsuta mentre attraversa, come

ogni giorno da anni, le stesse vie

della metropoli nel rione in cui

ha residenza la casta avara e ricca;

e un Folle arranca, e declama a squarciagola

trance di un suo poema fantasioso

e intanto pudiche ammissioni dell’abisso

nel quale precipitando vala Storia

orientata dall’uomo una Umanità

idiotizzata formalizza, ancora

sul ring ripresentata, a dar spettacolo…

 

(Giovedì 1 febbraio 2007)

Johannes Brahms licenzia i Neueliebeslieder

In questo raro vacuolo del mio massiccio

classicismo conviene – oh, sì!…-  far spazio a questa postilla.

E’ il mio idillio segreto conla Sublime

Vedova ciò che qui ho inteso scolpire nei suoni;

è il casto sentimento che mi invase

dal giorno che la mia scarpa di viaggiatore

instancabile mi trasse dalla nativa blaue Erde (1)

in Bilkestrasse, a Dusseldorf. Recavo stretti

sotto il mio braccio i fogli e gli effluvi ambracei

delle mie quattro Ballate opera 10.

Tra scalpiccii e stridi di infanti festosi

dal suo alambicco Robert distillava

gli psichici filamenti della gloriosa

sua protensione dell’arte nella vita;

ma, già volgendo a estenuarsi la sua fibra,

in ogni giorno e ora di quell’impagabile

soggiorno in strenua confidenza e dialogo,

sorto istantaneo acquistava tenacia ferrea

nel mio animo l’impossibile sentimento

sospeso tra opposti poli di cuore e mente.

Si, un giorno non molto lontano, canticchieranno

con voce tremula, per feroce risentimento

sù dai precordi della razza antica,

fanciulle, fraulein, dame viennesi appena

divincolatesi dal lubrico abbraccio

di un tracotante fante vittorioso

di una Rossa Armata, questi motivi;

illuse di muovere passi lungo un sentiero

provvidenziale disposto da una mia arte,

tempestiva nei moniti, lungo i varchi

lasciati dai dignitosi casamenti

per riscatto futuro del loro sesso

orrendamente profanato.  E dunque,

sveltamente raccolte le macerie

e ricomposti nell’antico ordine

chiese barocche e arroganti monumenti,

a ogni capo d’anno ben pettinate

e ben avvolte in monture spumeggianti,

in ben più frivoli walzer si inebrieranno

o lanceranno in volteggi bastarde eredi.

 

E forse per aver posto radici l’equivoco

di quelle volontaristiche redenzioni

di animi e di corpi ormai distratti

per sempre da quanto per secoli si è detto

nutrir valore entro la linea-sgorbio

tracciata come confine all’intraprendenza

ancora sensata, dal gretto epicureo,

meno barbuti ma ben più ridicoli musicanti,

immemori di quale trafila dall’ancestrale

al civile ha percorso l’Orda barbarica,

di éra in éra raffinando ritmi e sensi,

pretenderanno di esprimere in cerebrali

complessi rumoristici e ossessivi

ridicole protensioni in un innanzi

che pure sapranno vacuo e impercorribile:

beati dell’applauso che al proditorio

renderanno nuovi esegeti e spettatori

della terrestre convenzionale estetica

in asettici teatri, in fumosi saloon…

Da tali Matres Matutae (2) le Neue Bahnen!(3)

 

(6 settembre 2006)

(1) E’ la c.d. terra azzurra da cui, lungo la costa del Baltico, si cava l’ambra.

Corrèla l’evocazione delle Matres Matutae (2) con la determinazione a classicismo orgogliosamente dichiarata nel secondo verso dal personaggio…

(3) Sornione – e malizioso…- richiamo del titolo dell’articolo con cui, nella sua  Neue Zeitschrift fur Musik, Robert Schumann annunciava al mondo della musica, il 28 ottobre 1853,  la scoperta del genio bramhsiano…

 

Dietro i dolori al centro di una magica caccia / Ho ancora un recinto nell’Isola entro cui rifiorire / Rito dei marinai in franchigia

13 gennaio 2006. Recuperato da un remoto deposito di inediti i tre componimenti  seguenti.

 

Dietro i dolori al centro di una magica caccia

 

Ora ricordo come nel tempo giovanile

quando il glicine fioriva arcandosi sui muri

crescevano le mie preoccupazioni

del valore, del prestigio, del giudizio, della coscienza.

Lievitavano gli odori fino a iridescenti altane;

ogni lettura mi rendeva più innocente, i colori scintillavano,

lamella contro lamella, punto tra punti,

il senso delle cose pareva celato, per me,

dietro i dolori al centro di una magica caccia…

 

Le rondini tracciando semicerchi ingannavano o promettevano.

E io con quale fanatismo osavo assalire

anche le vite applicate a solamente un’opera!

Gli esseri dal viso astutamente rasato mi parevano,

pur entro il loro ardito profilo, pur risuonato il sibilo

della loro eletta intesa con il turbine infestante,

come invidiosi degli altri, i geni più alti, raccolti e muti,

esperti – davvero! – di tutti gli strumenti e teatri…

 

E a questi chiedevo la notte, più che ai santi,

tenacia nelle veglie e acutezza nello sguardo,

gioia delle favole ben animate, dei significati immobili.

Essi mi visitavano dandomi febbre e fatica,

però scheggiando il ghiaccio e intessendo legami

mescolavano superbia e umiltà, rischiaravano l’anima,

guidavano il corpo tra proficui rimorsi e promesse

sicché scaltro nel giorno toccavo i confini dei cicli…

 

(Roma, 1 febbraio 1965)

 

 

Ho ancora un recinto nell’Isola entro cui rifiorire

 

Nel buio mastico le sfrangiate paste di farina di ceci,

frutto della mia atavistica sorcellerie pasticciera.

E come, nel gusto della mia bocca agra,

come dal cuore provato in angustie e grettezze,

sale la voce di un dèmone che nessuna prigione converte!

 

Ho ancora un recinto nell’Isola entro cui rifiorire

così come quando ricompare la primavera arguta:

nella modestia dei miei poteri e sensi,

in lungo colloquio con la pietra che si sgretola,

con il riccio che si apre, con la pianta che profuma…

 

E infine sorrido dei miei timori di esaurimento;

e infine mi apro un varco nella ressa irriconoscente

certo che saprò urlare alla morte in viso,

che allevare un figlio è porsi in viaggio verso siti nuovi

senza neanche più aspirare alla fama di moda|…

 

(Roma, 30 gennaio 1965)

 

Rito dei marinai in franchigia

 

                                                           “E’ s’infurieranno delle cose più belle,

                                               a cercare, possedere e operare le parte lor più        

                                                           brutte, dove poi, con danno e penitentia

                                                           ritornati nel lor sentimento, n’aran grande

                                                           ammirazione di se stessi.” (Leonardo, Profezie)

 

Rito dei marinai in franchigia:

tempesta e canto nuovo della Terra!

Ricorda come ritornò il sorriso

sopra il volto di Demetra angosciata

per il ratto divino di Persefone:

“…Baubo solleva il peplo, e mostra tutta

la matrice; di quella vista gode

Demetra, e infine accetta la bevanda…”

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Rito dei marinai in franchigia;

parata, varietà, seminario, clinica

di rosee cicatrici, di neri tatuaggi.

Una folla li teme o li disprezza

perché non colgono frutti del suo recinto,

respingono con furia i sognanti idilli

di gioventù bavose impaludate

in sentimenti disposti in una giostra

secondo cavallereschi cerimoniali

e ansiose di esibire i loro trofei…

 

Ora ricordo le fresche sale estive

precluse al sole e agli echi della gente,

ai sentori dei lignei rottami arsi

nei vani delle macerie portuali.

Ora ricordo le fresche sale estive

tempio di intense luci artificiali

e dei sentori e ritmi della carne.

Nello stallo regale sta Proserpina

appena reduce dal triste itinerario

su cui pesavano piogge, venti, e vermi;

disposta come un anziano ambasciatore

che sa come la guerra si impone e trascorre,

mormora in tutti i gerghi dei Continenti…

Giungono i marinai con i baschi in bilico

sui crani, i raggi aurei delle dita

scagliano i dadi di risate aperte

sopra i merletti grigi dei sofà

odorosi di polvere e di muffa.

Al crepito delle formule galanti

il Mare si insinua e canta entrola Terra;

Ade scherma le lampade e si appiatta.

I convenuti delibano il piacere

masticando, celiando, contrattando,

come approdati a trascegliere un destino

in una affollata piana oltremondana…

 

Nel grigiastro languore di vivaio

accanto a ciascuna femmina compare

l’emblema che le assegnano i Bestiari:

la Cagna claudicante,la Scimmia irosa,

l’avida Scrofa, la ronzante Ape,

la Colomba dal soffice piumaggio,

la Formichiera dalla lunga lingua;

e le Mezzane assegnano nuovi nomi

a emozioni smarrite appena esatte,

salse sui cibi, forge di metalli…

 

Su tali fili si tesse l’impresa.

I Ballerini tutte ora disserrano

con forsennati colpi delle chiavi

le energie troppo a lungo trattenute;

fondendo brutalità e galanteria

riscoprono sugli omeri muliebri

feline decorazioni, nauseanti balsami,

culmini, eclissi del visionarismo.

I Brindanti hanno tolto la sordina

al pianoforte della fantasia;

e quelle che ancheggiavano stancamente

scialbi sorrisi esponendo tra le gote,

sorbita qualche aromatica tisana,

pattuiscono soste di più ore.

 

Gli specchi più non mostrano menzogna

allo scrosciare delle carni bianche.

Al moto dei rampanti corpi, ormai,

ad ogni volta del rondò lanciato,

gli steli delle piante salottiere

si gonfiano palpitando come vele

sui travi di lussuosi vascelli antichi;

negli intervalli unanimi puoi udire

l’allarmato squittio dei sorci in fuga…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Rito dei marinai in franchigia.

Core che infine matura dopo il ratto;

il maschio che si distende dopo il coito

come il polipo risale su dal fondo

nella umida nube del suo inchiostro,

vela il corallo, nostalgie dispensa

sulle ferite roride e brucianti…

 

Rito dei marinai in franchigia.

Divinità parevano all’ingresso;

all’uscita schioccava la loro carne.

Ridendo ripetevano con Orfeo:

“Nulla di più miserabile che la Femmina!…”

 

(Roma, 9 – 18 marzo 1966)

Nel sito a cui un grande spirito ha intonato il suo sé

Zurigo, millenovencentodiciassette,

Ottikerstrasse, invernale meridiana.

            “Dschoddo, vieni dal papà!” – Signore

con una bellissima testa bianca; passeggia

dritto e con aria distratta. Ora si ferma,

cerca qualcosa, cambia direzione.

Fanciulli che, ammirati del bel San Bernardo

di cui il vecchio signore si dice papà,

lo distraggono e lo colmano di moine.

Così uomo e animale ora si incontrano

ora di nuovo si distanziano e smarriscono.

“Dschoddo vieni dal papà!” pronuncia

con morbida inflessione in una pagina

di infantili memorie di Elias Canetti

‘Signore con una bellissima testa bianca’.

E quando poi guadagna la Banhofstrasse

scrigno di nostalgie di un trascorso dinamico,

la Banhof, di prospettive per lui più ariose

della forzosa dimora in accidia neutrale,

dalla infantile soggezione esplode

la monellesca verve; su un Ferruccio Busoni

marcato ‘Dschoddo-vieni-dal-papà!’

 

Oh, il ridanciano aneddoto, trascolorando,

mi traslata nel tempo e nello spazio,

epigone fantasmatico e ammirato

a sporgere pacata ammonizione,

dal ciglio di una pedana alabastrina,

a quei poi certo cresciuti in precario intermezzo,

dare segnale di un culto del genio e dell’uomo

a infanzie irresponsabili o in corso rischioso.

Ho appena ora ascoltato il possente fugato

finale dell’oratorio beethoveniano,

scorto un Cristo in angoscia sul Getsemani,

e ben ricordo un Virgilio mago deriso

in una certa incisione di Luca di Leida;

così, questo Ferruccio misconosciuto

da entrambe le sue patrie in brutale conflitto,

ancora una volta mi intriga ed emoziona.

 

Lo incontra Stephan Zweig, e pronto annota:

“I suoi capelli sono già grigi, gli occhi

velati di dolore: – A chi appartengo?… – chiede –

La notte sogno; e, al destarmi, mi accorgo

che nel sogno ho parlato in italiano.

Ma poi, se scrivo, impiego parole tedesche…-“

 

Lo angoscia la lotta cruenta di quelle due patrie;

al bar della stazione dinanzi a due vuote

bottiglie di rosso vino ripete con Holderlin:

“Wir sind nichts; was wir suchen ist alles!

E come non contrastare allora con rabbia

la sciocca volgarità che falcia il mana

nel sito a cui un grande spirito ha intonato il suo sé?!…

 

(12 giugno 2006)