Percorsi

Il ‘’Pensatore’ di August Rodin in promenade fuori del mio teatrato

Un ghiribizzo del mio bilioso Autore

mi sbalza fuori dal saggio di Daniel Rops

e mi pone a indagare con piglio censorio

quanta porzione del tempo mattutino

trascorre la gente comune e quella ‘di pregio’

a reggere in buon raccordo mente e intestino;

infine mi scaraventa nel chiassuolo

di Jonathan, l’estroso Decano irlandese,

durato per decenni – e quasi da nascita…-

in stallo paralizzante del senso e del gusto,

irretito da una nevrotica pudicizia

nel dubbio se proprio quel Dio di cui pratica il credo

non abbia, impastando l’umano, sgarrato misure

col porre in adiacenza strumenti del sesso

fertile e fetidi espurghi di mucose cloacine.

 

Qui, nel chiassuolo in cui annaspa Jonathan

nella per lui difficile  escrezione

del fetido detrito per lui orripilante,

per lui maldestramente situata dal creatore

quando impose adiacenti nel corpo dell’uomo

la fetida cloaca e il truogolo in cui,

bisbigliante salvifico opificio,

mulinando edoné si perpetua la vita:

“Io rappresento – proclama con ctonio rombo –

il genus immortale sul suolo terrestre

con la bronzea evidenza della forma!

Io sono la piramide che ha la base

ben piantata sul chakra Muladhara,

il vertice nel pensiero, risorsa e rischio!…

 

Un giorno comparirò nella mente insonne

di un certo Auguste Rodin, a Meudon, Paul Dukas

rifinendo appuntino il suo“Apprenti sorcier”,

Antonin Dvorgak il proprio “Z nového svéta”!

Reso maturo da fiamme in ardita fusione,

in fulgore glorioso verrò esposto

alla vista di pavidi borghesi,

di fantasiosi idealisti, di metafisici

ancora insonnoliti, onde dar certo conto

che assai ben congruamente le energie

in natura latenti si compongono,

e poi il composto sospingono ed evolvono;

per questo lo sterco scorre lungo mucose

umide, il muscolo si distende nell’ebbrezza,

ma il chiodo frena a tempo l’estrosa voluta…”

 

E starà a te, se questo foglio leggi,

carpire lo sconvolgente concetto che,

con grammatica nuova e con estro fantastico,

in esso è stato trasfuso di un poetare

inteso a penetrare in anse e in golfi

di una ben palpeggiata fisiologia,

quella che fu scartata dal glossario

estetico che Accademici Schizzinosi

hanno per secoli imposto a platee debosciate;

inteso a penetrare nei problematici

inviluppi per cui la mente spavalda

e temeraria ha tratto l’intero Genere

a urbana confidenza con la Catastrofe

quotata come esito logico e coerente

di un giuoco articolato e pur dilettevole…

 

(Cori, 3 dicembre 2011)

Cosi’, ristretto in prosperosa solitudine

Martedì 28 giugno 2011

Recuperati oggi per caso su una vecchia agenda contenente appunti datati 1996 non tutti trascritti in Diario dell’epoca, questi versi.

 

Così, ristretto in prosperosa solitudine

 

Sì, il precetto è ben chiaro: nel Parnaso

di cui avete reggenza non c’è spazio

per versi che rechino proterva esibizione –

o anche qualche trasudo ectoplasmatico…-,

autobiografici tra tentacoli ben stesi

su tanto conformistico pattume!

Così, ristretto in prosperosa solitudine

entro il confine della vostra indifferenza,

offro però con pacata esternazione

nella senile, insincera rassegnazione –

ànzos èrotos, intendo, ànzos sòmatos!…-

il residuo attuale del problema.

Con buona frequenza

gli spasimi dolorosi si presentano

sotto la lastra scura delle meningi,

sotto lo specchio grigio dei miei alluci

fatto abnormemente spesso e reso

neanche più governabile da tante

marce estenuanti e ghiotte in climi

torridi o gelidi, e anche per calzature

non confortevoli o adatte per l’impresa

(scotto fatale già pagato, intendo,

al mio fanatico impulso naturistico

fin dalla prima trepida adolescenza…;

sui displuvi, già allora, con apprensione

non sogguardavo già l’ingorgo in cui

precipitavano mia vita e vostra poesia?…)

 

Ebbene, se azzardo ora: “Empedocle, l’eponimo

per testarda insistenza; se gli assegno

nella favola qualche analogo fastidio

della persona, nel crogiuolo fervoroso

per identici spunti, e che, forse,

il rodio zodiacale non sarà flusso

che la terra-elemento gli ha trasmesso

fino alle razionali conclusioni,

fino alla fatale ùbris del precipizio

fiammeggiante?…Gàiei mèn gàr gàian

opòpamen, aizèri dìaizèra dìon,

atàr purì pùr àidelon , storgèn dè storgèi,

nèikos dè te nèikèi lugròi!… Con la terra

vediamo la terra, con l’acqua l’acqua,

con l’aria l’aria fulgida, il fuoco

che devasta con il fuoco, con l’amore

l’amore, con l’odio l’odio nefasto!…”?

 

(Cori, 13 gennaio 1996)

 

Parlo con gli alberi, io!

Parlo con gli alberi, io;

io li ascolto parlare e cantare

nel silenzio austero della mia montagna,

quella che ho a lungo esplorato celandone

le vie intime all’escursionista pettegolo,

io, miles a giusta ragione gloriosus

dell’autentica passionale ecologia,

al miles gloriosus dell’ambigua ecologia.

 

Sì, io parlo con gli alberi, io!

Io, sì, posso parlare con gli alberi,

posso ascoltarli mentre parlano e cantano

nel silenzio ieratico della mia montagna.

Giacché gli alberi parlano e cantano,

fra loro; e con me, benevolmente accessibili.

Essi parlano e cantano, gli alberi,

nell’aria tersa e balsamica della nostra montagna,

in modi che in qualche senso somigliano

al nostro parlare e cantare sporadico;

ma essi parlano e cantano con un fervore spontaneo

che il nostro parlare e cantare ha perduto per sempre.

 

E anche gli uccelli,  parlano e cantano

nell’aria tersa e nutriente della nostra montagna,

in toni che gli alberi comprendono e apprezzano,

più come il delfino e l’orca parlano e cantano,

per loro benevolenza, dall’onda ancora nutriente

in qualche ansa del già violato Oceano…

Essi, gli uccelli, parlano e cantano

nell’aria tersa e nutriente della nostra montagna,

più come il lupo e l’orso parlano e cantano,

per loro benevolenza, dal bosco ancora prodigo di frutti

in qualche landa della troppo profanata Terra…

 

Sì, gli alberi e gli uccelli parlano e cantano,

tra loro, e, per loro benevolenza,

talvolta con me e per me.

Ma l’albero curvato dal vento

proprio alla svolta dell’erto sentiero –

manufatto di un antico viandante

forse persino scalzo, forse ebbro

di gioia panica, e in bacchica ascesi… –

canta un motivo di dolorata nostalgia, ormai;

quello cresciuto nel folto della foresta,

là dove cessa la traccia dell’umana invadenza,

canta con foga sarmatica motivi

borchiati da intrepide dissonanze,

ammonisce e quasi minaccia l’estraneo

mentre il vento ne percuote la fronda;

e, quando lontano rimbomba il tuono,

la schiera dei suoi compagni solidali

intona un coro che inebria e stordisce,

inebria e stordisce più me che, per coglierne il senso,

mi sono come tramutato, trangugiando il mio cibo

con foga bestiale, e la formica nutrendo anche

delle sue briciole che quello stesso vento

intanto veniva spargendo al suolo,

nel piccolo pezzo di prato, microcosmica

Amazzonia non ancora o forse non mai disboscata,

vergine Natura che per alcuni istanti,

come anch’io librato nell’azzurro,

ho sogguardato dall’alto…

 

(Monte Lupone, 10 maggio 2011)

 

Pacate valutazioni del nostro distacco

1 gennaio 2011. Recuperato in un deposito di inediti il componimento che segue.

 

Pacate valutazioni del nostro distacco

 

            Forse vilmente, nel momento del prestigio

attinto dal nostro corpo o dalla mente

e ben riconosciuto da quelli che anelano

a guida od a conforto, a diatriba o a eros,

giuochiamo lucidamente le nostre carte,

inoltriamo la barca in più meandri

della palude cerebrale o etica,

ci compiacciamo del liquore espunto

dal barile contesto in solide doghe.

 

Ma pure, nella fruizione di un tal piacere,

allineati i motivi precordiali

stentoreamente declamati dalle

remote concrezioni in ignoti ingredienti,

spontaneamente germinano nel cuore

pacate valutazioni del nostro distacco

quotidiano, continuo e impercettibile,

dal tempo e dalla riva dell’idillio

radioso a questi ingorghi di ibride ansie.

 

Ascolto molti pitocchi e molti nani

ormai neanche più forniti di estro

e di longevità, di virtù muschiose,

coboldi snaturati ed evirati

discettare del prossimo millennio

seduti entro vetture in corsa folle,

fendere siti alterati o indiscernibili.

Tra il fumo delle droghe succolente

si dissolve ogni loro congruenza.

 

(Alessandria, 26 novembre 1992)

 

Poiché assurda è l’insistenza…

Assai prima che Shirley, in Bronte,

dopo appena aver descritto

un pauroso temporale

si lasciasse andare a dire:

“Pure, quanto è consolante,

quando tutto torna in calma,

che si scorga trasparire,

tra le nuvole che ora si aprono,

quel radioso balenio

che assicura: intatto è il sole!…”

 

Assai prima che Charles Fourier

conformasse la sua Eroina

spavalda in ‘guerre amorose’,

Fakma in abito e con intese

per cui il Turbine di Cnido

ben dovrà acclamarla Santa…

Assai prima che Claude Debussy

profilasse in ritmo e suoni

Fauni e Ondine, Ninfe e Naiadi

convincenti a godere in terra

deliziante senso e sesso,

saldi stavano i ghiacciai

sulle creste delle Alpi,

esprimevano limpide acque;

i salmoni con balzi atletici

risalivano i fiumi in piena,

puntualmente replicavano

in stagioni non deludenti

il rituale pellegrinaggio

alla Mecca dell’ancestrale.

I percorsi sotto il sole,

sotto vento o pioggia, allora,

il viandante misurava

a giornate o anche a nottate,

le distanze in passi, in gittate

o di dardo o di giavellotto;

si innalzavano santuari

in siti che dèmoni ansiosi

di colloquio con gli umani

dotavano di fascino e aromi.

 

Era quando l’intemerata

Eloisa sapeva opporre

a quel dio che altri intendeva

come torvo sequestratore

di un suo corpo peccaminoso

il diritto delle passioni

degli umani finché in terra…

Poco appresso una Perronnelle

infuocava un anziano Guillaume,

dava spunto a quella vena

per cui un “Livre de Veoir dit”

fonde senso e suono, cose

e parole en un vergier

un vergier qui bien ressemble

de doucer le biau paradis

queve et adant eurent jadis…    (Guillaume – Livre, vv.3886 sgg.)

 

Pur se enorme

grande è il libro:

quando arido è il contrappunto

fervorosa è la poesia,

il concetto lambiccato

porge in mèlos avvincente.

 

Ahi, che non vedremo mai

più che come in fantasia

kòre ateniesi uscire

nel plenilunio estivo

all’alba, succinto il peplo,

nudi il piede e la gamba,

in olezzanti prativi

e raccogliere in poche tazze

poche gocce di rugiada

per comporle in pozioni benefiche,

filtrare amorosi elisir!…

 

Non c’è più spazio per dire,

nel verso, dell’error fatale

a me, a te, agli altri, alla Specie!

Siamo preda di pochi despoti

ben astuti e determinati;

convinti che sia inesauribile

la miniera planetaria,

ci costringono a scavarne

anche gli anditi più riposti.

Misurano e tassano essi

gli spazi entro cui ci concedono

il sopravvivere, scorrere

per produrre lavoro o anche

transitare in schedato diporto…

 

Forse è l’ora di dare il passo

in quell’Oltre  misterioso

da cui a te giungono ancora

o acquerelli di Utopia

o frastuoni di Sansculottes

poiché assurda è l’insistenza

del tuo biasimo, se i pochi

che vorresti giunti in schiera

si ritengono soddisfatti

appena di questo:  ‘…mandare

a dire all’Imperatore…’

 

(Domenica 4 luglio 2010)

Ah, l’arte conveniente agli affetti dei grandi!

1 gennaio 2011. Recuperato da un remoto deposito di inediti il componimento che segue.

 

Ah, l’arte conveniente agli affetti dei grandi!

 

In solitaria villeggiatura riflette

sul poco credito che ancora si accorda

alle sue cose: romanzo, poesia, dramma.

“Certo è già ingenerosa questa pretesa

di tacitare i fremiti del nativo pudore,

di circoscrivere le ombre poco nitide

di dignitosi elevati pensieri

che neanche il contestatore più accanito

parodierebbe in una così noiosa estate…”

Eppure, ecco, analizza con puntiglio

i propri perché, gli ausiliari vanitosi,

nel limpido mattino con molti dialoghi

di casigliane in vestaglie rosse e verdi:

“Forse – inquisisce – vado troppo mal vestito?

Dovrei con studiata lentezza pasteggiare

cinte e cravatte, prima di adattarle

al ventre e al collo su stirati panni!

Le pieghe delle stoffe dovrei amarle

con assoluta fedeltà e trasporto, sì!…

Ma tutto è giuocato qui dunque il mio credito?

Via, proprio ieri qui chi era che

notava la civettuola trasandatezza

con cui recavo in spalla una giacca di daino?

Dovrei meglio curare l’emissione

della voce, quando recito le mie cose

all’entusiasta curioso…Certo, a volte,

è come sciorinassi nuda e cruda

la tetra anatomia dei miei cadaveri

metaforici, anagogici, anaforici.

E invece all’ortoepia dovrei davvero

almeno dedicare un sonetto o un’ode;

ma non nel gusto barocco di idolatria

delle forme, d’accordo, ma con scettica

curiosità, con machadiana enfasi;

poi reclutare l’annoiata compagnia

dei sazi e degli inutili; essi, infine,

someggiano la poetica salmeria

lungo i crinali di fantastiche traslazioni…

Dovrei seguire (ma, per carità!,

serbando la preziosa e la fatale

autonomia dal candido chitone,

dal capriccioso boccolo!) la via

degli Arrivati; copiare i loro gesti,

lasciare a metà nei piatti le pietanze,

sposato il loro prezioso galateo.

E poi essi, i Serenissimi Arrivati,

gonfi di sali lagunari, là,

nella spaziosa loggia veneziana,

di quale confidenza farebbero grazia

ad un così scimmiesco imitatore?…

Dovrei sorprenderli, nell’ora in cui

sul loro chilo e sulla loro siesta

cade l’ombra vigliacca di Campoformio,

con ben studiati sorrisi di simpatia,

farli ammirati almeno di un mio genio

di folle, di primitivo, di infante, di guitto?…

Dovrei giuocare a bocce con il Parroco

e con il Federale, sfidare agli scacchi

il Mercante Aggiottante! Infine, hanno

dei familiari di modesto pregio, sì,

ma con fisionomie di effetto estetico,

pareti da intonacare nelle case,

curiosità bambina, orgoglio permeabile…”

 

La cancrena cominciava a lacrimare

con note di gretto suono all’orecchio del mostro,

nel vano del tronco massiccio che aveva adattato

a guanciale; verisimili sogni prendevano

le tinte stilizzate dell’abitudine…:

“Ah, ma lassù non si giunge ad aver successo

se non si è ben saziata la coscienza

con lento rosicchio delle unghie anemiche.

Dovrei rinfocolare, nella mia casa

il culto della mia persona; ma – Dio mio! – come

potrei, mancando acqua, spedire mia moglie

alla fontana con dei fiaschi in braccio

avendo posto in lizza le due nostre

martirizzate e prometeiche dignità

come fossero galli da battaglia

tenuti a freno in un patio messicano?

Essa è bene anche figlia di un magistrato!…

 

Tra l’uno e l’altro sparo di un cacciatore

i guaiti di cani adulatori

ferivano nella speranza più verde e odorosa

i pochi spettatori nauseati

dai troppi truculenti drammi silvani;

la loro servile crapula però inebriava

selvaggiamente i rassegnati e gli eterni indecisi

ai bivi di polverosi, deserti sentieri.

“Quanti simili a me – pensava – pure

si sono resi convinti, ad una età,

in una precisa stagione di forma fatale

soffusa di descrivibili malinconie,

che qualche pregio recano quei motivi… –

scrollò le spalle, sorrise amaramente –

Dobbiamo dunque coraggiosamente

tutti imbrattare le quattro pareti

di questo nostro sacello provvisorio!
L’acume storico è un letto molto scomodo;

ma è risaputo che nella notte a volte

trilla improvvisamente il campanello

chiassoso e bene induce il Profeta, il Duce,

l’Episcopo, il Fraticello, il Sergentino,

o anche solo la Recluta caccolosa

a riconoscere l’ineluttabile destino.”

 

Ed ecco, tutto il suo orgoglio ora si raduna,

come una Grande Armée ben dotata e speranzosa,

a Boulogne, preludiando una sua Anàbasi,

al grido di ‘Onore! Thàlatta! Onore! Thàlatta!…’

I corni inglesi rassettano alle trombe

i gonnellini di anacronistiche vivandiere,

cavalca Fabrizio Del Dongo un cavallo non suo.

Con comica attenzione ora si sente

spronato a delineare sulla carta

i volti e i corpi bene infagottati

delle napoleoniche cortigiane

che fanno ressa attorno a François Gérard:

“Dateci saggio consiglio voi, maestro,

su come meglio trattare il ritratto che avete

appena concluso del citrullo Re di Roma.

Domani uno squadrone di corazzieri

partirà da Parigi per recarlo,

ancora così odoroso delle vernici,

al padre, tra le tende, sulla Moscova.

Non subirà alterazioni, vogliamo sperare,

nel suo trascorrere per lande paludose

e alpestri valichi? Ma gli schianti dei boschi

carpatici potrebbero screpolare

le vostre (ed ora sue) preziose tinte?

Ecco già pronti ai vostri sagaci indici

i carpentieri, i fabbri, i falegnami,

gli imballatori, le corvées della Reggenza

(assente giustificato; e, poi, neanche

indispensabile – comprendete?… – il cavilloso

generale Malet, per diarrea e tosse…);

suvvia, impartite i sospirati ordini;

verranno tutti eseguiti col massimo impegno.”

 

Allora, così richiamato dai palpiti ansiosi

delle megere ai crismi legali, il pittore

di corte, il Genio Grazioso, sorridente

come una scimmia posta dinanzi a uno specchio,

lascia la strada ferrata del netto interesse

tutto immedesimandosi nei dettagli

dei finali amminnicoli del gesto:

Iconografo in moda si netta i piedi,

cordonato Servente netta la cima

del pennello di martora sul panno

di pelle di una cornuta renna, annusa

da una peripatetica tabacchiera

il tabacco d’Egitto alquanto stantio;

e, schiarita la voce, con sussiego,

ora impartisce con barocchi fronzoli

a eletti pretoriani la sua lezione

di imperiale imballaggio e facchinaggio.

Tutti, poi, a cena. Si arrostiscono le carni;

le pelli che si contorcono e il puzzo acre

dilatano gli stomaci degli adepti,

infondono sana energia nei corpi scattanti

e danno una piega gentile ai loro fervori

così che posino adagio sulla pagina

del tomo storico, farfalle di bella tinta.

Si fanno brindisi in pro del quadro e della

sua scorta pachidermica e alquanto alticcia:

“Ah, l’arte conveniente agli affetti dei grandi

come spartisce bene anche sui minimi

essenze e aromi del maggior prestigio!…”

E infine, serrato il portone ben chiavardato,

sul foglio si rassettano le figure

di tutti i personaggi della farsa

con appropriati grafismi complessivi

come nei nostri barattoli di cristallo i frutti

ridotti in saporite marmellate…

 

(San Polo, 17 agosto 1967)

 

L’estrosa corrispondenza delle parti

La pera che maneggio matura, strappata

alla fronda ramata e gettata a terra

dalla tempesta notturna, possiede un corpo

ben modulato dentro curve ardite,

un capo di fanciulla indisponente,

ventre capace e mammelle prosperose

ben custodite in sottile tegumento,

un inguine profondo in cui convergono,

come da varie parti le percezioni

del vasto senso del suo esser persona,

gli sguardi dei vecchioni che spiano Susanna…

 

Sì, il picciolo per cui si reggeva al ramo

è forse il rimasuglio del suo cordone

ombellicale per cui si ritrasmette

speditamente la sagoma flessuosa

di una femmina sorpresa nel rituale

della sua segregata nudità,

intenta a spalmare creme, dosare lozioni

negli anditi del proprio insieme che più attraggono

l’altra metà del cielo in clavi erotica…

 

Librato nel cielo azzurro del mattino

sta il genitore-albero. Impettito

e austero nella propria corteccia-corazza;

come un feudale cavaliere come

un crociato già assorto nel miraggio

della mèta lontana e contrastata

volge dall’alto lo sguardo compiaciuto

sulla figliuola attempata infine accasata

con ricca dote e corredo prezioso,

al genero sedentario e soddisfatto

del premio fortunoso alla propria pigrizia

appena un sogguardo furtivo e commiserante…

 

Poi, quando, varcato l’uscio del suo boudoir,

gusto la granulosa polpa del frutto

si travasa entro me la percezione

di quanti imperscrutabili percorsi,

nell’angusto cortile del nostro cosmo,

i chimici ingredienti che un Monod

un Mendeleev un Prigogine zelanti

hanno appuntato su lucide tabelle,

coprono, dando forma ad organismi

vegetali o animali, voraci o eduli,

senza che sia soffocata in alcuno di essi

l’estrosa corrispondenza delle parti.

 

(Cori, 14 settembre 2009)

E p i n i c i o

(a Danny Ferrone, per la sua sfida alla FC nel Triathlon…)

 

Wonderful landscape, Danny Ferrone,

questo cortile cosmico entro cui i minimi

chimici ingredienti il vortice spinge ed anima

oltre la piatta tabella di Mendeleev

sinché in solidali organismi non si aggregano!…

Eppure in tale miriade di perfettibili

– tra cui cercheresti invano il Perfetto e l’Unico –

spessola Mente boriosa, ben impancata

sul vertice cervicale, convince i soggetti

a rinnegare l’etica per cui giunsero a vita.

 

Per fare viaggio in paesaggi naturali

consiglia contachilometri testati

per formidables vitesses e che mai andranno in tilt;

convince ad accasar figlie con ricca dote

che altri sperpereranno in bordelli e bische;

boriosi Alfieri incita a ingaggiar guerre

assurde che tuttavia dànno lustro alle armi…

 

Mentre dal Tibet un Lama sollecita: “Tieni

fraterno quotidiano dialogo con tutti i tuoi organi

se vuoi dar giusto senso al tuo sopravvivere!…”

chi innesta ance e pistoni sull’esile canna

del flauto pastorale, chi  escogita musiche

vibranti di più strenue, estenuanti nuances,

azzarda che il prossimo Orfeo potrà trarre Euridice

dal buio gorgo che la tiene ostaggio…

 

Ben più virtuosa inclinazione, dunque,

quella per cui hai addestrato il tuo diaframma

a flettersi per dar spazio al nutrimento

aereo degli alveoli più reconditi

nel complesso vitale di cui hai governo,

Danny Ferrone, unico atleta capace di

stravincere una gara ancor prima di correrla.

Sì, all’ospite occasionale tu offriresti

porzione generosa di un pasto frugale!…

 

E dunque poiché il tuo gesto ben rappresenta

che l’energia con cui il vento gonfia la vela

e incalza l’onda finché non si esalta in spuma,

è un bene impagabile, sì, ma comunque gratuito

e posto a disposizione di chiunque,

formoso ereditiero o rampollo gracile,

dico che, ben appunto trasvolando

lungo secoli di storia furente o annoiata,

questo glorioso Triathlon con cui attraversi

regate insulse di nababbi ereditieri

dovrebbe lodarlo Pindaro con un suo epinicio.

 

“Ma come – dirai – connettendo pretesto e metafora?…”

Così: ammonendo che l’arte deve ordire

non bolse melopee della condizione

ma energici incitamenti a sovvertirla,

sospingerla all’alternativo perfettibile!…

 

(Cori, 14 settembre 2009)

A Miriam Makeba

Ricorre nelle volute del tuo canto

la naturale, la terrestre epica,

deplora come altero protagonista

lo scempio che del creato ha fatto l’uomo;

balzando sù da sordità del gutture,

immagine, – o modello?… – delle fertili

viscere del Pianeta, della Voragine

Cosmica! Miriam Makeba, voce

della latebra terrestre, dell’aliante librato

nell’etere che Bacchilide chiama amìantos,

dell’utero fecondo della Grande

Madre e degli spettri che

nell’immaginazione traspaiono…

 

Ho imposto timbro e tono della tua voce

a quel mio personaggio che redarguisce

l’Umanità protesa verso un futuro

di meccaniche atone: la voce

del Continente offeso e schiavizzato,

barrito di pachidermi saggi e memori

forzati a far da sagome nel poligono

di ‘verdi colline d’Africa’, ristoro alla noia

di pennaioli maniaci  votati al suicidio.

Miriam Makeba, Miriam, Madre-Africa.

 

Era stagione felice del mio ingegno:

componevo il mio “Durer”, istruivo personaggi

capaci di rinfacciare ai terrestri despoti

inganni e trucchi con cui usurpano il potere.

E te ho sorpreso intesa a rovistare,

Gigantesca Guardiana, in quella ricca

Cornucopia di mondi alternativi

che i Poteri condannano come utopia

quando, nelle dimore disertate

per la vacanza di massa o il volgare diporto,

impulsive fantesche lustrano arredi,

scacciano ragni e gechi dagli anditi ombrosi

in cui da sempre intessono la profezia degli esiti

fatalmente segnati ai nostri traffici

frenetici, inconcludenti e appestanti,

a tanta sconsiderata intraprendenza.

 

Le sillabe nel tuo canto colpivano come lapilli

scagliati sopra lo Stadio Planetario

da un Krònos irato, da un Vesuvio rovente

su una Pompei stordita in lussi sfrenati….

E’ un caso se ormai sempre più, nelle Olimpiadi

Memoriali di questo Continente

ansimante, infrangono atleti negri

nastri-traguardo, indossano medaglie

coniate con quell’oro che per secoli

faccendieri schiavisti hanno sottratto

al tuo Continente, al vostro  Continente?

 

Ah, Miriam Makèba, Sirena e Fata,

ah, noi invano ammonenti, quante volte

abbiamo scorto puntate su di noi

occhiate di irresponsabili e delusi,

di forsennati stremati! E quando quello

che abbiamo intraveduto a tempo e ammonito

si è ben concretizzato essi che

l’acqua dell’orcio hanno tutta sperperato

piuttosto che riconoscersi maldestri

ci investono con biliose recriminazioni…

 

Ah, Miriam Makeba, Madre-Africa,

se anche accomuni tutti nella sanzione

pianta che anche il frutto marcio nutre

– Madre lo ricompone in più degna forma…-

l’aspro risentimento della tua voce,

tonante epica terrestre e naturale,

come  di una che con noi confligge,

eppure ci sostiene come Dàimon:

cresce da sordità gutturali ad acuti volteggi,

– il gutture: immagine – o modello?…-

delle fertili viscere del Pianeta –

la lanci in melismi arditi e temerari,

melodici stiramenti delle sillabe

su motti che marchiano la ingrata coscienza

di noi dissipatori del bel creato.

(8 settembre 2009)

 

Epigrammàtion

…Una stitica poesia

ben solubile in meningi

impigrite dal frastuono

di meccanici trasporti;

sillababile, incompromessa,

quasi chicchera zuccherosa

nelle fauci di un obeso,

apre lande sterminate

per le corse forsennate,

in vitesses irrefrenabili,

di ermeneutiche ciarliere;

stregoneccio del vacuo e inutile,

adattabile e servizievole

buona chance per chi ben gode

nello sciocco rinnegamento

del suo imprinting fisiologico,

dei suoi obblighi ecologici…

 

(Cori, 12 ottobre 2009)