Anni 90

Cosi’, ristretto in prosperosa solitudine

Martedì 28 giugno 2011

Recuperati oggi per caso su una vecchia agenda contenente appunti datati 1996 non tutti trascritti in Diario dell’epoca, questi versi.

 

Così, ristretto in prosperosa solitudine

 

Sì, il precetto è ben chiaro: nel Parnaso

di cui avete reggenza non c’è spazio

per versi che rechino proterva esibizione –

o anche qualche trasudo ectoplasmatico…-,

autobiografici tra tentacoli ben stesi

su tanto conformistico pattume!

Così, ristretto in prosperosa solitudine

entro il confine della vostra indifferenza,

offro però con pacata esternazione

nella senile, insincera rassegnazione –

ànzos èrotos, intendo, ànzos sòmatos!…-

il residuo attuale del problema.

Con buona frequenza

gli spasimi dolorosi si presentano

sotto la lastra scura delle meningi,

sotto lo specchio grigio dei miei alluci

fatto abnormemente spesso e reso

neanche più governabile da tante

marce estenuanti e ghiotte in climi

torridi o gelidi, e anche per calzature

non confortevoli o adatte per l’impresa

(scotto fatale già pagato, intendo,

al mio fanatico impulso naturistico

fin dalla prima trepida adolescenza…;

sui displuvi, già allora, con apprensione

non sogguardavo già l’ingorgo in cui

precipitavano mia vita e vostra poesia?…)

 

Ebbene, se azzardo ora: “Empedocle, l’eponimo

per testarda insistenza; se gli assegno

nella favola qualche analogo fastidio

della persona, nel crogiuolo fervoroso

per identici spunti, e che, forse,

il rodio zodiacale non sarà flusso

che la terra-elemento gli ha trasmesso

fino alle razionali conclusioni,

fino alla fatale ùbris del precipizio

fiammeggiante?…Gàiei mèn gàr gàian

opòpamen, aizèri dìaizèra dìon,

atàr purì pùr àidelon , storgèn dè storgèi,

nèikos dè te nèikèi lugròi!… Con la terra

vediamo la terra, con l’acqua l’acqua,

con l’aria l’aria fulgida, il fuoco

che devasta con il fuoco, con l’amore

l’amore, con l’odio l’odio nefasto!…”?

 

(Cori, 13 gennaio 1996)

 

Pacate valutazioni del nostro distacco

1 gennaio 2011. Recuperato in un deposito di inediti il componimento che segue.

 

Pacate valutazioni del nostro distacco

 

            Forse vilmente, nel momento del prestigio

attinto dal nostro corpo o dalla mente

e ben riconosciuto da quelli che anelano

a guida od a conforto, a diatriba o a eros,

giuochiamo lucidamente le nostre carte,

inoltriamo la barca in più meandri

della palude cerebrale o etica,

ci compiacciamo del liquore espunto

dal barile contesto in solide doghe.

 

Ma pure, nella fruizione di un tal piacere,

allineati i motivi precordiali

stentoreamente declamati dalle

remote concrezioni in ignoti ingredienti,

spontaneamente germinano nel cuore

pacate valutazioni del nostro distacco

quotidiano, continuo e impercettibile,

dal tempo e dalla riva dell’idillio

radioso a questi ingorghi di ibride ansie.

 

Ascolto molti pitocchi e molti nani

ormai neanche più forniti di estro

e di longevità, di virtù muschiose,

coboldi snaturati ed evirati

discettare del prossimo millennio

seduti entro vetture in corsa folle,

fendere siti alterati o indiscernibili.

Tra il fumo delle droghe succolente

si dissolve ogni loro congruenza.

 

(Alessandria, 26 novembre 1992)

 

Dall’oltrevita ai dinamici ed assorti (o: Che qualche segnale pure potremo porgere)

Lunedì 12 maggio 2008

 

Recuperati questi versi del 1993, li trascrivo qui:

 

Dall’oltrevita ai dinamici ed assorti

o anche:

Che qualche segnale pure potremo porgere

 

Se in cielo discreto sorto un quarto di luna

e temerariamente marcio nel bosco

appena conosciuto, tra echi di acque

ruscellanti e cascate, dinanzi il monte

loro patriarca generoso e ossuto

pende come un velario colossale,

però, sul mio passo ritmato, effluvi densi

il groviglio dirama sul mio alito

cordiale, forse una monade goethiana

per tempo ha volteggiato lungo il sentiero

in cui accendono fremiti le lucciole

o, penetrata con graditi vini

nel mio tenace organismo, mi convince

che qualche segnale pure potremo porgere

dall’Oltrevita ai dinamici ed assorti,

dopo smaltiti i iemali appostamenti

nelle suburre fetide e fumose?

 

(Armona-Susa, 25 giugno 1993)

Sibilla

Sibilla, acrilico su tavola, 70×100

Aretàs ghe mèn ou minùzei

Inveisce contro il suo pelo caduco

di vegliardo, che ora resiste al soffio

con cui tenta scacciarlo dalla tela

invasa, intanto, dal pelo del suo pennello –

pelo di mite animale, operoso e tenace –

con tinte sostanziose, con tratti veementi.

 

Ma poi, quasi assolvendo il capriccio innocuo

di un suddito, di un servo, di un infante,

si compiace pensando che il dispetto

vale come conferma che è spartita

in omogenea densità, nel corpo,

quella tenacia per cui è capace ancora

di imprendere qualcosa e indicarne il senso

il despota mentale che questo annota:

 

“Aretàs ghe mèn ou minùzei

brotòn àma sòmati fèngos,

allà Mousà nin trèfei!”… (1)

 

(9 luglio 1999)

 

(1) “…ma la luce della virtù non diminuisce con la forza del corpo sela Musalo nutre…” Bacchilide, Epinicio III, 7)

 

Gli alibi provvisori o le urgenti difese

Dove Fjodor descrive Serov delinea

le drammatiche volte dell’esistere.

E non dovremmo, credo, discettare

con tanta bonomia – segnando i punti

in cui la accorta dialettica non coinvolge

la nostra stessa mano ad armarsi di scure,

il nostro stesso cervello a soppesare

gli alibi provvisori o le urgenti difese –

del delitto gratuito e comunque inspiegabile

di Raskolnikov, emblema e reperto di un mondo.

Dove Fjodor descrive Serov delinea

le drammatiche volte dell’esistere.

 

(16 marzo 1998)

 

Straniata pastorale, se i due estremi

All’alba, appena desto, decido che può

intitolarsi Anfìsbena lo scabro grafema

tracciato ieri; tracciato, intendo, quando,

uscito dal rischioso malanno, di nuovo

palpavo il muro per scovarvi aditi

al reale increscioso o promettente;

e farlo magari valere come metafora

di questa nostra storia personale e generica

distesa, sì, ma protesa incoerentemente

tra nostalgie di Eden, di auree età,

ancestrali memorie, infantili idilli

e orgogliosi propositi, temerarie invenzioni,

manie futurologiche, esibizioni

di ciarlatane bravure nella diaspora.

 

Straniata Pastorale, se i due estremi

osserva un villano accosciato, orecchia asinina,

grinta di un Mefistofele mortificato

mentre un Fourier ben librato, papiglionaceo,

solca un nonpertanto azzurro cielo…

Anfìsbena, immagine del corso immortale,

del nostro orgoglioso rifiuto di genealogie,

del nostro idiota annaspare etimologie!..

 

(Cori, 27 febbraio 1998)

 

Improperium per Duena Elvira

Ah, Donna Elvira, Duena Elvira, occhio

casto, imene con fine arte effratto

‘biofisiopsicologica’!… avessi tu

letto con buon giudizio Petronio e Aretino,

potuto conoscere un Fourier e un Lawrence, o

nutrito un qualsiasi intuito dei loro argomenti

rimestando in soffitta in armadi decrepiti,

in tarlate barocche cassapanche

palpato il gusto degli assensi fertili

nella meravigliosa sopravvivenza

di insetti a capo di nostre toilettes e igieni,

quanti melodrammatici andirivieni

avresti risparmiato ai tre poveri generi

schizzati dalla mano infervorata

di questo nostro Dio Parsimonioso

sul foglio appena apprettato della Natura!…

 

(Cori, 25 febbraio 1998)

 

Dico: il trascorso storico non preme e frattura?

All’alba (la prima luce sogguarda appena

dalle sconnesse maglie dell’imposta)

escogito un tiro burlesco con cui impallare

con l’autodidattico mio hablar espanol

quel frenetico transfert – e poi imprevisto! –

che istiga Maria Teresa, ora, a stanziarsi

per anni, e magari per sempre, en ciudades ibericas.

Poi, quando fremente si staglia il cinguettio

dei pennuti sfreccianti tra gli umidi olivi,

mentalmente sorrido compiaciuto

della finale battuta con cui svelerei,

tra superflue o improbabili agnizioni,

chiudendo il telepatico colloquio,

il trucco del mio affettuoso dispiacere.

 

Sì, Adonis, “la scrittura, in arabo, insegna

che non è un luogo la patria e non si situa”

in nessuna casella del nostro atlante,

“essa insegna in che modo si può dire:

il mio paese è il mio corpo”.

Ma ecco, io

avverto quale spasmodica prensilità

scatena, in tutti i luoghi in cui la portano

gli individui e le orde, la parola,

come essa afferra e avvinghia paesaggio e humus,

si innesta nella pianta e nell’animale,

patina l’atmosfera e la montagna

nel Mexico di Hernan Cortez e di Pancho Villa

e fin nelle più remote Mindanao…

 

Penso alle saponate mediterranee,

atlantiche, pacifiche, di una

hispanidad già cantabrica e latina,

agli essenziali crismi ovunque flessi

nel tempo per proteggere gesto e individuo,

marchiare di rosso orgoglio i loro perimetri.

Penso a patrie violente ed aggressive

che le encicliche islamiche e cristiane

camuffano con ireneici dettati.

Dico: il trascorso storico non preme e frattura?

Non hanno forse i moriscos e i marrani

una progenie sparsa in lande boreali?

Non vanno per strade nebbiose, a Londra e a Chicago,

sciiti maghrebini coperti di lana?

(Cori, 20 aprile 1997)

Dovete studiare a fondo, del tiranno,

Dovete studiare a fondo, del tiranno,

l’intera costituzione, sollevare

le placche della sua cote ferrigna,

annusare nella rosea mucillagine

la fetida lutulenza dei suoi visceri

nutriti delle migliori derrate e bevande,

connettere con l’intera fisionomia

il corteggio servile e compassato

dei suoi ministeriales, cancellieri,

notai, scribi, cattedratici puntuali

nel ripianare in verbis i suoi conati

prometeici, le sue sigle galvanizzanti;

vagliare come neanche il possente urlo

postumo del mozartiano Requiem possa

modificare un tratto del suo arbitrio,

rendere per un attimo flessibile

il decreto coerente in tutti i nodi,

flettere la proterva pretensione

dei melensi poetastri che lo assistono

e che dalle finestre della sua reggia

espongono gli emblemi ed i messaggi

che invogliano la massa resa atona

a disporsi compatta sull’ultima rampa

del millenario declino di antiche prestanze!…

 

(14 marzo 1997)