Anni 2000

Sapere che ti soffermi o anche ritorni

                                      (…bàle dè bàle kerùlos èien!…)

 

Sapere che ti soffermi o anche ritorni

su una pagina mia questo rinfocola

ora gli estremi barlumi del mio ingegno,

di quel cordiale impulso che è il mio naturale

bene nutrito dal verbo di alcuni saggi.

 

Vale per me più che l’applauso reso,

mentre sprofonda in abissi immemorabili,

da una folla appagata e ben sedotta

ai campioni togati e incravattati

in auditori di stordente acustica.

 

Così finché il mio orecchio saprà cogliere

il verso della pernice e fluirà dal corpo

impastoiato qualche mio messaggio

ben sia che, corso lo spazio che ci separa,

esso risuoni tò t’argùrion pròsopon (1)

come lo strido del cerilo di Alcmane

tu essendo alcionessa ultima, ma non tarda,

nello stormo allora ormai alipòrfuros…(2)

 

(Lunedì 21 aprile 2005)

 

(1)  il candido viso (di Agesicora); da un partenio di Alcmane

(2) color di conchiglia, di porpora; da Alcmane: Il cerilo

Dove credevi poterli ancora condurre, Alessandro?…”

(“…Ma gli abitanti del Nisa negano che Alessandro fosse salito sul monte: egli ne aveva bensì l’intenzione, in quanto era ambizioso di gloria e fanaticamente appassionato delle antiche tradizioni; ma temendo che i Macedoni nel passare accanto alle viti, che ormai da lungo tempo non vedevano, fossero colti dalla nostalgia della patria, oppure provassero desiderio di vino una volta che si erano ormai abituati a bere acqua, oltrepassò il Nisa levando preghiere a Dioniso e sacrificando ai piedi del monte.” – Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, II, 9)

 

Dove credevi poterli ancora condurre, Alessandro,

i tuoi istupiditi macedoni? Il clima si era fatto pesante,

ormai le armature gravavano loro troppo le spalle;

attorno ai fuochi, la sera, in tono dimesso recriminavano

sbocconcellando derrate che avevano in molto sospetto;

troppo spesso giunti a una fonte o alla riva di un fiume,

potevi scorgerli nudi detergersi, trascurare la guardia.

A cosa è valso vietare loro di ascendere al monte Mèros,

frenare la tua personale ambizione allora, la tua tentazione

di scorrere, palpare con mano i lunghi filari di viti

con cui ne aveva guarnito le pendici e la vetta

l’uno o l’altro dei due leggendari Dionisi un tempo?

 

A te hai precluso l’ebbrezza di un’orgia salvifica

infine liberatoria, forse, da quei frenetici impulsi

che Nectanebo aveva dagli astri tradotto con magica arte

nel punto in cui toccasti terra cadendo dal ventre materno;

ai tuoi hai voluto evitare la vista dei pampini

di cui smarrita avevano la cordiale memoria,

frenare il nostalgico morso di quanto una sbornia riafferra

nella penombra aromatica di dimore ben accudite.

In quella tua così accortamente studiata rinuncia

avresti dovuto già leggere che sull’impresa incombeva

la Moiraghignante, che già Melusine ed Arpie

avevano buona confidenza con la tua truppa sbracata.

 

(30 marzo 2005)

Dico – ma con fatica rassettandomi

Dico – ma con fatica rassettandomi

abito, aspetto, e tono di uno scettico -:

“Sarà appena forse in te ora emersa

vaga memoria di lettura antica

di un sonetto di Shakespeare; e così tenti

di convincer qualcuno che è tuo l’aforisma

persino adatto a melliflui adescamenti:

 

‘Ciò che infine l’amante dona all’amato

ad alcun altro del consorzio umano

lo sottrae. Era da sempre nel suo cuore

riposto, in tenace attesa dell’amato;

e quando è entrato nel cuore dell’amato

invano a quella porta il tempo strepita

mentre rifulge di luce memorabile’ “

 

E’ come quando talvolta bene avverti

che forse stai trascorrendo troppe giornate

di inutile commercio di parole

e di gesti con gente inaffidabile;

e poi si snoda improvvisa, nella mente,

la curva ardita di un poema convincente

né può infrenare alcun rispetto umano

il suo fluire come rivo alpestre!

 

(Cori, 18 febbraio 2005)

 

Motto di un maturo amatore armoniano

E sì, come non mi ammaliassero già abbastanza,

quando al mattino esponi al vento e al sole

il tuo bucato perché presto si asciughi,

tutti i vispi colori della tua

biancheria personale!…”

(Mercoledì 29 dicembre 2004)

Clou vorticale di un certo suo chef d’oeuvre

Non furono  maschi traci che tatuarono

le Menadi per punirle dello strazio

fatto di carni del Cantore Eccelso?

Bene, ora stanno silenti e radicate

in materna effusione con branchi porcini

né più in corteo promiscuo e forsennato

scorrazzano per contrade ventilate.

Ma di’: “Quale profitto ci hanno acquistato?…”

“ Appena la certezza che né i misteri

di Dioniso né quelli  a cui tributava

ossequio il tracio Orfeo dalla vetta,

ogni alba, del Pangeo selvoso

oggi risolverebbero i nostri dilemmi

su quanto è conveniente al sopravvivere

in un pianeta che con cieco arbitrio

è stato abraso, da ère immemorabili!…”

 

E dunque non schernirmi, non dare in sarcasmi

se provo a raffigurare il mio incontro col Musico

osannato, glorioso

a parole saccente futurologo

ma asmatico e dispeptico pedone

nel fatto quotidiano, tre decenni

prima di oggi: sorpreso a perlustrare

mescite appena appena svuotate dagli

urbani tracannatori alticci e arzilli,

pretendeva pasteggiare nel silenzio,

inconsueto in quei profani templi,

il crepito più formoso ed adescante

che vitree damigiane, fiaschi, ampolle

dànno se infrante da magistrale verga;

clou vorticale di un certo suo chef d’oeuvre

 

(1 settembre 2004)

 

…è che il calamo duttile

rende lo sgorbio utile…;

e tu prima, Piranesi,

ammonisti: “…col sporcar si trova!…”

 

(Annotazione che rinvengo affacciata sul margine destro e in alto di una pagina ingombra di schizzi estemporanei, probabilmente eseguiti, viaggiando in treno, su uno dei piccoli taccuini che reco con me quando mi sposto a piedi o con qualsiasi altro mezzo)

Di quello che il Dio esige

Incontro Perseo in una glossa di Graves,

arcobaleno di albionica saggezza

sulla mortificante filologia

di una deprimente tradizione

mal rabberciata in questi ultimi decenni

che ha trascorso il mio Genere nei rischi

di catastrofi immani congegnate

con stupida masochistica acribia.

 

E calco le peste di Perseo in più degne imprese,

mi attento a tempestiva ammonizione

del titolo che merita la sua gesta.

 

Perseo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Epefnèn te Gorgòna, kài poikìlon kàra

drakònton fòbaisin èluze nasiòtais

lìzinon zànaton fèron…” (1)

               

…e poi, mentre superava da nord la costa

della Filistria, vide una donna ignuda

incatenata a uno scoglio presso il mare,

e subito fu preso d’amore per lei.

Era essa Andromeda figlia di Cefeo,

il re etiope di Joppa, e di Cassiopea.

La madre si era vantata un giorno che

neppure le Nereidi cilestrine

avrebbero potuto reggere in gara

di bellezza e di grazia con lei e la figlia.

Offese per l’oltraggiosa protensione

e per la temeraria conclusione

avevano fatto appello a Posidone,

allora, le Nereidi; e il dio del mare

aveva flagellato quel paese

con mareggiate furiose, incursioni crudeli

di un mai prima veduto mostro marino.

Cefeo, allora, sconvolto, consulta l’oracolo

di Ammone; e impone l’oracolo che Andromeda,

esposta nuda e ingioiellata, sia

abbandonata e offerta in pasto al mostro.

Scaltro si accorda Cefeo con Perseo che

a Perseo tocchi Andromeda; premio, se

Perseo la libera, dell’impresa ardita

che infatti l’eroe compie …”

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

                        Bellerofonte

 

Ma poi imbriglia Pegaso, cavallo alato

balzato su dal tronco della Gorgona,

Bellerofonte, presso la fonte Pirene;

con un finimento aureo, dono di Atena.

Serve Iobate di Licia, uccide il Mostro

dal pestifero alito, mistura infida

di leone di capra di serpente: Medusa;  (2)

combatte i bellicosi Solimi, le Amazzoni,

alto volando fuori dal tiro delle loro frecce.

Poi quando, tradito dal regale ospite,

invoca Posidone, e il dio scatena

le acque dello Xanto in paurose ondate,

scorte le donne xantie offrirsi a lui

succinte e terrorizzate, forse invasate

dall’erba hippomane o dal liquido vischioso

di cavalle in calore, china il capo,

eroe misericordioso, e si ritrae…   

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

                       

San Giorgio

 

Infine, quando da dietro una nube vedo apparire

di nuovo un cavallo alato e il cristiano San Giorgio

ancora una volta un Mostro affronta

e in una ancora martoriata Beirut (3) libera

una regale fanciulla sequestrata dal Drago:

“Ancora la Gorgona – strepito – ancora

la Chimera proterva e deludente, mostro

recidivo, gestore di gelosia, invidia, forse?…”

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Vegliardo incompreso, disinvoltamente privato

di qualche merito e credito (oh, ma sapiente

di questo: che il registro del mio dramma,

che il tono del mio poema, intralciano

la vostra ordinaria acquiescenza

a quello che i Despoti impongono!…)

a piede del foglio  su cui lo ritraggo, il Santo,

traccio, tramato di esperienza e studio,

il motto che il saggio impulso sincretistico

mi impone:

“…Ma se, indotti

da fourieriana scepsi, vi induceste

a interpretare la leggenda come

mascheratura pudorale della

redenzione di un erotismo femminile

– o maschile, o anche androgino, o ermafroditico…-

assurdamente segregato, stivato in ghetti,

in ginecei, in harem, sorvegliato

da esangui, invigliacchiti eunuchi, fustigato

da luridi maneggioni della tratta,

schifato dai sonnacchiosi abitudinari,

la pensereste perciò meno apprezzabile

l’impresa di quegli eroi, di quel vostro Santo?…”

 

Per me essi sono Araldi del Dio che ammonisce:

“Prestate soccorso a quanti i Despoti Clanici

vietano effondere naturali impulsi e aneliti!…”

Oh, sì: “Emòi de zaumàsai zeòn telesànton

udèn pote fàinetai èmmen àpiston…(4) 

Nulla mi pare incredibile, mi fa meraviglia,

di quello che il Dio esige!…”

(Cori, Fontana Mandarina, maggio 2004)

 

(1) (Pindaro, Pitica X, 46-48): “…uccisela Gorgone e tornò portando la testa ornata di serpi, la morte di pietra…”

(2) (Esiodo, Teogonia,319 segg.; Pindaro, Olimpica XIII, 63, segg.                                                      

(3) Secondo una tradizione locale una cappella trasformata poi in moschea, a Beirut,  segnerebbe il luogo in cui sarebbe avvenuto il confronto tra San Giorgio e il Drago; quella architettura, e il paesaggio circostante ad essa, sono anche rappresentati in icone orientali dei secc.XVII e XVIII.

(4) (Pindaro, Pitica X, 48-50): “Niente mi meraviglia, niente mi pare incredibile di quello che compiono gli dèi”

La labile arte del mimo

La labile arte del mimo,

di segni che presto si sfaldano

come spirali di fumo

che un giocoliere dispone

a vista di idiota ciurmaglia

nasuta, festosa, caparbia

nel plauso al gaglioffo despota

dopo il furto plateale,

la scoperta della tresca,

del malcelato assassinio!

Prima inviluppo magnetico,

appresso vapore impalpabile,

anonimo in spazi profondi

dove si stagliano imprese

di più mordente prestanza

offrendo memoria ai superstiti

di scorrenti generazioni.

 

Ah, quando il teschio di Yorick

dalla zolla appena rimossa

solleva il principe Amleto,

schizofrenico messaggero

di quanto è impossibile fare,

e impossibile non fare!

A quale età della vita

intende alludere?, a quale

età dell’Uomo? Alla nostra

di Intuitori inascoltati?

A quella del fanciullo ugandese

strappato alla madre e armato

perché combatta una guerra

di cui ignora motivo e fine?…

 

Nel sito nel quale impartiscono

i Signori del Discorso

lezioni di eccelsi studi

sul Bello, sull’Utile e il Giusto

grava un fetore nauseante

di spurghi necrotici emessi

da anodine macchine. Appena

un anno dopo la morte

del docente nessuno ne fa

più memoria né astiosa né grata.

E quando, destato in Qualcuno

il genio latente in Ognuno,

risuona il sornione starnuto

nel refettorio i Mediocri,

inforcate più spesse lenti,

chinano il viso sul piatto

ripieno di grassa vivanda,

l’estetistico banchetto

melodici rutti suggellano,

la Storia ha inghiottito il misfatto…

 

(Giovedì 28 maggio 2004)

 

La lena che esplode e si estingue

La lena che esplode e si estingue

in una stagione infantile,

in una gioventù-Primavera!…

Geniale lettura del verbo

in cinque vocali e colori:

A noir, E blanc, I ouge,

U vert, O bleu, voyelles…,

fuoco d’artificio festivo

in società inalterabili:

deboli adulti che poi

impetrano un po’ di assistenza

alla scalfita epidermide

da una vedova o pensionata,

matrigna o sorella superstite;

spavaldi che attingono in droghe

muscolatura e coraggio

per affrontare avventure

temerarie e inconcludenti…

Nel frattempo un Ralph Waldo Emerson,

sull’altra atlantica riva,

attende paziente che approdi

il Genio-dall’occhio-di-tiranno

capace di fonder l’antico

con il nuovo, nella sua terra…

 

Che prodigio che sfolgori ancora

sopra il nostro capo bianco

la nativa fantasia,

che apprenda ragioni per crescere

la nostra speranza del meglio

dopo i transiti intimorenti

per dialettici pantani,

instancabile pendolante

dal fantastico al prammatico,

dal prammatico al fantastico!…

 

(Venerdì 20 febbraio 2004)

 

Questa creatività nostra costretta

Questa creatività nostra costretta

tra gesti in quotidiana indifferenza,

stimati indispensabili e mai studiati –

premere un tasto, sfiorare un interruttore,

azionare un pulsante, girare una chiave,

sospingere un pedale, bloccare un flusso,

ruotare una maniglia o un rubinetto,

protestare per estimi fatti esosi,

per tradimento di ruffiane cedole –

cerchio che assedia l’àpate durata

di corpi ormai ridotti ingenerosi,

di menti pervertite e pervertenti.

E dunque i nostri romanzi e i nostri poemi

offrirli a occasionali avventori impratici

delle cogitazioni problematiche

per cui proruppero, come mature feci

da un organismo nutrito saggiamente,

da schiavi mantenuti in lussuosa stanza…

 

Ma pensi a essenza e tono di distanti

creatività accampate in interstizi

con eroica bravura conquistati

da menti fervide in più fragili organismi

ponendo i sensi in quotidiano studio

dei moti e suoni tramati in uno spazio

comune, di naturale offerta e scambio –

fracasso di dure ruote su acciottolati

sconnessi, ragli nitriti zoccolii di bestie

partecipi degli umani impegni e fremiti,

colpi di scuri su stagionati tronchi,

sfrigolio di ramaglie nei camini,

crepiti di stoviglie di altra tempra,

discreto chiocciolio di acque raccolte

o versate, crepitio di legna ardente

nelle sere, fruscio di fredde ceneri

spazzate all’alba e riposte per lavaggio

di biancherie domestiche e usurate…-

 

E infine se misuri il modesto divario

di condizioni e di mansioni, gli esiti

della parola scritta o proclamata

in tempi e luoghi che ti paiono contigui,

avverti in ben altre distanze di tempi e luoghi

i sonanti essudati delle anime

fondersi con spontanea naturalezza,

gli estremi speculati serrarsi e giungersi,

masserizia essenziale al sopravvivere

del messaggio, non più della persona:

allora balbulus Notker quando transita

a San Gallo sul ponte, scruta l’abisso

e strepita: ‘Media vita in morte sumus!’

(ah, Notker, quale fiducia in noi trasfonde

la sequenza, rioccupandoci nel trascorso!…)

è ancora Li T’ai Po che dalle balze

del Monte Lu scorge fulgenti andare

gli spiriti dei Beati, con in mano

fiori d’ibisco, alla Città di Giada…

 

(13 novembre 2003)

 

Ecco, il nostro occhio e l’orecchio

La funesta scorribanda

dell’esotico uragano

che attraversa i continenti

e frantuma architetture

dell’umana intraprendenza

forse amalgama e reintride

nella macina del tempo

le incidenze persuasive

che hanno effuso altri esistiti?

 

Li T’ai Po che un bel mattino

sale ai Cinque Monti Sacri

a cercare gli Immortali

che con fiori d’ibisco in mano

vanno alla Città di Giada

tra iridate nubi e nembi

mentre l’acqua del Fiume Azzurro

laggiù va e non fa ritorno;

 

Notker – balbulus et edentulus,

bibliotecario e hospitarius –

che a San Gallo sporge il capo

dalla spalletta del ponte

sull’inorridente abisso

ed intona la sequenza

Media vita in morte sumus,

quem quaerimus adiutorem?...

Ecco, il nostro occhio e l’orecchio

nel frastuono urbano hanno

sperso in favole stranianti

le risorse naturali!

Mira in alto o scruta in basso,

scegli: o inerte e poi plagiato

o rinchiuso nella torre!…

 

(30 ottobre 2003)