Doto il mio personaggio del temerario assunto
di Friedrich Leopold von Hardenberg,
portentoso Novalis, però imponendogli
di tenere ben stretto sotto il braccio
il turgido volume in cui Lucien Lévy-Bruhl,
adunati gli arditi esploratori
dell’anima primitiva, i Dorsey, gli Hetherwick,
gli Spencer, i Gillen, i Gatschet, i Codrington,
gli Schmidth, i Mathews, provvede alla esazione
dei tributi dovuti per le fertili
residenze trascorse in tropicali,
australi, polari siti, disfioramenti
di papille epidermiche in climi inconsueti
di natura e di logica, polarità opposte
di osservanti e osservati, di apprendenti e di appresi.
E allora lo udrai anch’esso declamare:
“In quanto io credo che Sophie sia sempre
intorno a me e che possa apparirmi,
e agisco conformemente a tale fede,
essa è difatti intorno a me, per certo
infine mi apparirà, e proprio dove
meno l’aspetto. In me, può darsi, come
anima mia, e proprio così veramente
fuori di me; infatti ciò che è
veramente esteriore non può che
agire mediante me, in me, su me
– e in un rapporto delizioso”…(1)
Orripilano i Mostri Letterari
e Poetici di questa nostra età,
tachìmani lumache, claudicanti tigri,
miopi aquile, iene dispeptiche, avvoltoi
imblesiti; fanatici cacciatori di un perfectum
impassibile immerso in un pulviscolo
di scriteriati, onerosi perficienda:
“Così, dunque, – inquisiscono – pretendi
colmare il Vuoto di progettualità e riflessione
per cui molto abbiamo noi dovuto osare
tanto accanendoci, in solidale fervore,
noi sparuta pattuglia, contro legioni
di esaltati campioni dell’Anima bella,
anche esponendoci, dopo la màke astrusa,
a graffi e sputi di grinzose vivandiere?…
Osserva con quale impeto già cavalcano
i nostri metallici ponteggi la tua ridicola
barricata, come il nostro ingegnoso,
intrepido, ben più legittimamente romantico
Futuribile soffoca il tuo assurdo invito
agli ultimi indecisi di Megalopoli
perché disertino dalla gara che nella Storia
l’Uomo da troppo tempo ha ingaggiato col dio!…”
Ma poi, nel loro grottesco fraintendimento
di cosa e come e quanto il tempo che scorre
eraclitianamente deforma o coimplica,
di cosa la memoria clanica, anche
riluttando, inconsapevolmente ingloba,
scorto l’inizio del ben più erto sentiero
nel quale forse balugini un indizio
che ancora all’Uomo possa un domani dischiudersi
– provvidenziale tonico della mia
energia di vegliardo irriducibile
ai vezzi delle mode salottiere o accademiche -,
in esso avanzo con giovanile foga.
E, così sporto sulla quota nobile
del talento, del naturale sostentamento
che nel ben mantenuto mio complesso
fisiologico i balsami boschivi
infondono, mi attento in sarcasmi messianici:
“Tenete bene a mente che l’aforisma
è unica espressione e calza un’Unica!…
– declamo con ragazzesca improntitudine –
Sbirciate ben indietro nella memoria
del clan – se questo ancora vi resta possibile… -!
Accertatevi, compulsando abbecedari
e tecnici manuali, cronache, elzeviri,
che abiti hanno indossato nell’arco di secoli
le tante Sophie altre da quelle che
sgambettano a voi giunte incolonnate
in fumide autobahnne autoroutes autostrade
quando la torrida estate delle vacanze
nel Villaggio Globale fonde i roventi
asfalti e lascia allora levitare soltanto
equorei miraggi, impalpabili palmeti
dinanzi agli occhi di Annoiate e Fatue
– anonimo Gelangweilt und Leer -,
che scorrono sbadigliando sull’orlo dei
superstiti panorami e intanto ritoccano
nel loro miniaturizzato display rococò
i trucchi di quella cosmetica futuribile
di cui fanno unico orgoglio, nell’Era Finale,
lungo i crinali del landschaft monocromo
e altre poi gestiranno con orgoglio
specioso nell’Ultima Era dell’Umano Creato…
Quanto queste Sophie ‘altre’, trascorrendo
per la terrestre quotidiana lima delle
medianiche o native facoltà, fanno
mostra spavalda a inebetiti spettatori
di spalle e natiche ben rosolate dal sole,
impiastricciate da odorosi lenimenti?,
quanto dei loro seni hanno posto in mostra
parziale e maliziosa a sguardi di ingordi?,
con che sorrisi all’ospite accaldato
o infreddolito avranno pòrto la bevanda
ristoratrice estratta con piratesca
arte dai frutti marci della stagione?
E, anche nelle ordinarie contingenze,
come hanno modellato il loro discorso?
Quale profumo avrà intriso la parola
che un tempo sgorgava da bocche più pudiche?
In che mansioni – e per parabole più estese –
avranno impegnato le loro energie
mentali e fisiche tra ciascuna alba e tramonto?,
in quali sogni avranno scovato le chiavi
con cui ben disserrare poi gli ermetismi
di altri esistenti spasmodici nella veglia?…”
In cima all’arduo sentiero, quando neanche
avverto più il brusio della quisquilia
valligiana, mi viene incontro il venerando
fantasma di una Penelope Fitzgerald
sorniona e riconoscente; nella mano
il suo incantevole libro ‘Il fiore azzurro’.
E mentre ben percepisco allora come
in Antverpen si mescolasse ogni mattino
nella cloaca il colore che raschiava
dalla sua tavolozza Pier Paolo Rubens
con l’urina che avrebbe fra poco minto
Elena Forment diciottenne uscendo
ben appagata dal rito notturno del sesso,
il corpo stretto in morbida pelliccia,
mi rendo esatto conto che non convince
perché appreso in un libro del mio scaffale
questo giudizio attribuito a un certo
Friedrich von Hardenberg o a un certo Novalis,
ma in quanto espresso con ben viva voce
– tra ben rifiniti dettagli del corso vitale
di lui, della casa, del clan, della razza, del secolo… -,
dal suo ben più plausibile Personaggio,
quello di cui Penelope appunto ha reso
con tanta meticolosa cura l’essenza
vitale ed esistenziale, il senso e il gesto.
“La miniera non viola alcun segreto
della Natura; anzi è opera industriosa
mirata a rendere liberi i figli della
Madre Terra, la vita vecchia come il mondo
che il civile pattume ha intrappolato!
Da quanto tempo attende sottoterra –
l’orecchio teso a cogliere i primi rimbombi
del piccone brandito dal minatore –
il Re dei Metalli? E che cosa sentirà
quando infine potrà sporgere il viso
alla luce del giorno, per la prima volta?…”
“Ah, – la provoco – amica, in quel tuo ironico
circostanziare minuzzaglie quotidiane
come ben penetriamo il vissuto degli altri!,
come ben annusiamo il turgore vitale
tra i sentori essudati di febbri malefiche!,
come il nostro trasporci fa vibrare
in queste nostre membra infreddolite
il senso di una musica appena sgorgata
da gole spericolate nel Coro e in ‘a solo’!…
Ma se appunto così soltanto ci è dato
di apprendere della vita degli altri il senso,
scrolliamoci di dosso il trattato, eleggiamo
il romanzo e il poema a serramento
dell’ermetico e a unica chiave che lo apre!
Se è appena la loro musica a far comprensibile
il discorso, aboliamo il concerto, sussurriamo
all’orecchio di solo qualche complice
– e in posa, in disposizione, in clima opportuni…-
la trama inalterata, trasformiamo
in termopolio, in piscina, in palestra, in naumachia
l’Auditorium ormai inutile ed impratico,
convitiamo al commercio con gli Eletti
i soli disponibili ad elezione!…”
Così, il tuo libro, Penelope, divenga il mediante
tra quelle infatuazioni e fantasticaggini
che il me giovanile, impegnato allora
in una scomposta lettura di “Inni alla notte”,
in malinconiche inchieste per anni irretirono
e questa che ora scorgo adattabilità
di esse al ‘corto poema’ che insieme potremmo
siglare chiudendo il tuo libro: “Il coraggio è più (2)
della sopportazione, è la forza di crearti
la tua vita nonostante tutto quello che
Dio o l’uomo possono anche infliggerti,
così che ogni giorno e ogni notte
siano come tu li immagini. Il coraggio
ci rende sognatori, ci rende poeti”.
Sì, ora che, infine, smagato dalla
spericolata scepsi fourieriana,
il me senile incontra la tua resa
arguta ed humourosa di quel ‘credo’
librato in irripetibile esperienza,
ottima delle sorelle, anch’io la compongo,
giuocando sulla tastiera bachiana il ‘Capriccio
sulla partenza del fratello dilettissimo’,
in ardue trasposizioni neumatiche e grafiche,
la mia lettura del genio irriducibile
che lascia traccia indelebile in distese di effimero!
Chiudo il tuo libro, sicuro che lo scettico
il più incoercibile del verbo di quel Friedrich
– o trasognato, ma pur, nelle strettoie
del sito, dell’età, del rango, del clan,
sperimentato ed esperiente Friedrich!… –
non potrà non vederlo ora balzare
vivido e ben inquietante dalla tua pagina,
infine, un ben più affidabile, ma anche ‘tuo’ Novalis.”
(12 giugno 2006)
(1) (Novalis – Frammenti; n.23)
(2) (Penelope Fitzgerald – “Il fiore azzurro”, pag.167)