Anni 2000

A Miriam Makeba

Ricorre nelle volute del tuo canto

la naturale, la terrestre epica,

deplora come altero protagonista

lo scempio che del creato ha fatto l’uomo;

balzando sù da sordità del gutture,

immagine, – o modello?… – delle fertili

viscere del Pianeta, della Voragine

Cosmica! Miriam Makeba, voce

della latebra terrestre, dell’aliante librato

nell’etere che Bacchilide chiama amìantos,

dell’utero fecondo della Grande

Madre e degli spettri che

nell’immaginazione traspaiono…

 

Ho imposto timbro e tono della tua voce

a quel mio personaggio che redarguisce

l’Umanità protesa verso un futuro

di meccaniche atone: la voce

del Continente offeso e schiavizzato,

barrito di pachidermi saggi e memori

forzati a far da sagome nel poligono

di ‘verdi colline d’Africa’, ristoro alla noia

di pennaioli maniaci  votati al suicidio.

Miriam Makeba, Miriam, Madre-Africa.

 

Era stagione felice del mio ingegno:

componevo il mio “Durer”, istruivo personaggi

capaci di rinfacciare ai terrestri despoti

inganni e trucchi con cui usurpano il potere.

E te ho sorpreso intesa a rovistare,

Gigantesca Guardiana, in quella ricca

Cornucopia di mondi alternativi

che i Poteri condannano come utopia

quando, nelle dimore disertate

per la vacanza di massa o il volgare diporto,

impulsive fantesche lustrano arredi,

scacciano ragni e gechi dagli anditi ombrosi

in cui da sempre intessono la profezia degli esiti

fatalmente segnati ai nostri traffici

frenetici, inconcludenti e appestanti,

a tanta sconsiderata intraprendenza.

 

Le sillabe nel tuo canto colpivano come lapilli

scagliati sopra lo Stadio Planetario

da un Krònos irato, da un Vesuvio rovente

su una Pompei stordita in lussi sfrenati….

E’ un caso se ormai sempre più, nelle Olimpiadi

Memoriali di questo Continente

ansimante, infrangono atleti negri

nastri-traguardo, indossano medaglie

coniate con quell’oro che per secoli

faccendieri schiavisti hanno sottratto

al tuo Continente, al vostro  Continente?

 

Ah, Miriam Makèba, Sirena e Fata,

ah, noi invano ammonenti, quante volte

abbiamo scorto puntate su di noi

occhiate di irresponsabili e delusi,

di forsennati stremati! E quando quello

che abbiamo intraveduto a tempo e ammonito

si è ben concretizzato essi che

l’acqua dell’orcio hanno tutta sperperato

piuttosto che riconoscersi maldestri

ci investono con biliose recriminazioni…

 

Ah, Miriam Makeba, Madre-Africa,

se anche accomuni tutti nella sanzione

pianta che anche il frutto marcio nutre

– Madre lo ricompone in più degna forma…-

l’aspro risentimento della tua voce,

tonante epica terrestre e naturale,

come  di una che con noi confligge,

eppure ci sostiene come Dàimon:

cresce da sordità gutturali ad acuti volteggi,

– il gutture: immagine – o modello?…-

delle fertili viscere del Pianeta –

la lanci in melismi arditi e temerari,

melodici stiramenti delle sillabe

su motti che marchiano la ingrata coscienza

di noi dissipatori del bel creato.

(8 settembre 2009)

 

Epigrammàtion

…Una stitica poesia

ben solubile in meningi

impigrite dal frastuono

di meccanici trasporti;

sillababile, incompromessa,

quasi chicchera zuccherosa

nelle fauci di un obeso,

apre lande sterminate

per le corse forsennate,

in vitesses irrefrenabili,

di ermeneutiche ciarliere;

stregoneccio del vacuo e inutile,

adattabile e servizievole

buona chance per chi ben gode

nello sciocco rinnegamento

del suo imprinting fisiologico,

dei suoi obblighi ecologici…

 

(Cori, 12 ottobre 2009)

Ora finalmente potrà spavaldamente

(umorosa concione di un mio personaggio)

 

Ora finalmente potrò spavaldamente

strepitarlo – dall’alto terrazzo arioso

sullo spettacolo astruso della Città –

che io, io avevo ragione, non loro!

Io, il solitario trascorritore di montagne deserte,

Io, il centellinatore delle umorose quisquilie

di ingenui volanti che con disgusto scorrevano

tra sparatorie di sanguinari despoti;

perciò sdegnando i verbalismi inconcludenti

come i melismi flemmatici ed anodini,

la lega del battagliero strepitante

contro il massone faccendiere tenebroso!…

Attraversando naturistiche utopie;

mai consultando farmacista e medico

del crocicchio vicino, ho disertato

gli Auditorii che crepitano di applausi

resi al prestigio di questo o quel suonatore

però spolpato del fascino che spirano

sui madidi spartiti i panorami;

io, il ciclista silenzioso su polverosi sterrati

radianti dalle autostrade sempre gremite

da folle di forsennati tachìmani in ferie,

infine, con piglio serioso e sonoro inveisco:

“Saldati pur senso parola figura suono,

la simbolica arte resta inerme

e inerte. Dobbiamo inaugurare

ogni giorno, con puntuale ascesi

rioccupando il cerchio fisiologico

del personale stato provvidenziale,

l’atto per cui una fertile vivipara

ha come ritratto in un proprio quadro

l’inesauribile potenza della zolla,

in sé ha effigiato il seno della Natura!…

Ora, ora che i ruminatori di pettegolezzi astiosi,

i maniaci ingorgati di pietanze folli,

ora che i praticanti tabacco e droghe,

ora che i distratti sorvolatori di oceani

e di deserti, di gioghi andini e himalaiani,

seppure imperturbabilmente celebrati

da agiografi mestieranti in chiese e in senati

come talenti bruciati da passioni comunque

alla lunga gratificanti per l’intero Genere,

si sono amalgamati in asmatica polvere

che turbina e che prostra nelle canicole…”

 

(Domenica 8 marzo 2009)

Abbiamo anche noi trascorso molte stagioni

Come scarruffata eppure esilarata

per le delizie che ha assaporato

nell’animale orgia primaverile

esce dalla fratta la vergine che

ha infine ceduto alle insistenze

del corteggiatore imperterrito

così a novembre appare la fronda dell’ulivo

quando infine l’ultima oliva è riuscito a frugare

la mano avida di chi ha accudito la pianta

nelle trascorse stagioni e fin nell’afa estiva.

 

Abbiamo anche noi trascorso molte stagioni

della durata cosmica e del corso civile

del borgo, della City, della nazione, della casa;

e se anche la bruma autunnale ora stempera la memoria

degli irresolvibili crucci del pudore faticato,

di resistenze irragionevoli, di slanci irresponsabili,

stiamo io e la pianta ben decisamente infissi

nella Storia che Eva ha deciso corressimo,

Eva la nostra grande intraprendente Madre,

convinta dal Demonio a curiosare nel creato!…

 

Sì, di tutte le passioni della gamma

che il grande Scolarca Fourier ha, una volta

per tutte, scandagliato abbiamo marcato

il segno sulla pelle e nel cuore. E dico che

dovremo ostentarlo con orgoglio di terrestre

questo effetto della nostra esperienza quando

in Giosafat un Giudice magari anche

poco opportunamente severo vorrà

incalzarci con infuriate inchieste

su quanto abbiamo preteso ed estorto dal creato.

 

E in quale angolo della affollata Valle sarò allora

io, io che nel Giardino-dei-sogni-che-ben-premoniscono

ho così tante volte udito e scorto e applaudito, librato

nell’aria, fulgente nella sua montura

papiglionacea, il mio Maitre e tender la verga

verso Fakma per ammmonirla, la sua Pupilla

spregiudicata, volitiva e sensualmente prodiga:

“Fa’ tu, tu eletta Sovrana nel Turbine di Cnido,

che infine si convinca Minosse – e convinca la City!…-

che gli atti di Pasifae e di Fedra li segna ‘legittimi’

il Codice naturalistico e fisiologico!…” ?…

 

(Cori-Fontana Mandarina, 7 novembre 2008)

 

Aprire l’ultimo forziere dei miei estri

Vado lungo la pendice del monte.

Tutte le evenienze possibili sembrano protendere

tentacoli da oltre la linea netta del displuvio;

e sento che ribolle e si agita nelle mie vene

lo stesso impulso che dovette invadere le vene

dei due briganti estremaduregni –

l’uno, il seviziatore del mite Montezuma,

l’altro, il massacratore spietato

del mite Atahualpa -, quando decisero

di puntare al tesoro degli Aztechi,

all’oro di Potosì, della leggendaria Golconda

peruviana.

Avanzo nel gelido inverno

in spazi ora limpidissimi ora tempestosi,

ma non temo altezze stremanti,

turbini di pioggia o di vento.

Giunto vegliardo in cima all’erta

mi trovo dinanzi a una porta

rilucente di iridate faville.

Posso volgere in suoni ogni parola del mio poema,

sposare la voce che legge con quella che canta.

Anche per me forse comparirà, a giorni,

il figlio del vostro dio nuovamente

su questa terra, e qualche vagito

filtrato nella sua voce argentina sarà

la chiave con cui si potrà finalmente

aprire l’ultimo forziere dei miei estri.

(21 dicembre 2007)

Dietro di noi è restata l’Utopia

Dietro di noi è restata l’Utopia,

tramata entro dialettiche zoppicanti

in ingenue espansioni sentimentali;

ed ora tentiamo l’utile, non l’attraente,

leggiamo con sorriso divertito,

in biblioteche ben sterilizzate,

pagine ròse o ammuffite di Charles Fourier…

 

Ci fu un tempo in cui il reale maturava

con naturale lentezza. Dipingevano

i pittori ritratti e panorami,

fisionomie e paesaggi maturavano

senza temere appassimento o intrighi

di cerebrali pretesti o sociali profitti.

I musicisti confidavano nei motivi

robuste analogie del momento e del luogo

eloquenti per tutti, convincenti dovunque;

i poeti, compiaciuti del conforto

immediato di trepide parole,

spingevano l’opinione in alte volute,

i ricatti teocratici in fantastiche sfere…

Quante volte un Monet avrà chiesto con garbo:

“Lasciate ancora, vi prego, su quel tavolo,

quegli oggetti e quei frutti che la vostra

esistenziale incoscienza ci ha accalcato.

Non ho ancora ben chiare le velature

che ben manifesteranno la mia intenzione

nella tela in cui li ho precipitati…

 

(Martedì, 11 dicembre 2007)

A un tratto del tuo corso emozionale

A un tratto del tuo corso emozionale

ormai distante da domestiche ansie

e idilli scopri che al personaggio infine

stai, entro un fosco autunno, attribuendo

quella meteoropatia da cui eri stato

ben tartassato in decenni dopo l’infanzia.

E poi che questo ha reso la tua poesia

utile almeno a chi si intenda a leggerla

dopo serrata l’imposta al vario strepito

dei jongleurs epocali, alle maliarde

frizioni degli Effimeri, ai droganti effluvi

di Occulti Persuasori stanziati in pretorio,

di acidi Bacchettatori in cornu epistulae

Se entra nel dettatola Salariata

esausta e irsuta mentre attraversa, come

ogni giorno da anni, le stesse vie

della metropoli nel rione in cui

ha residenza la casta avara e ricca;

e un Folle arranca, e declama a squarciagola

trance di un suo poema fantasioso

e intanto pudiche ammissioni dell’abisso

nel quale precipitando vala Storia

orientata dall’uomo una Umanità

idiotizzata formalizza, ancora

sul ring ripresentata, a dar spettacolo…

 

(Giovedì 1 febbraio 2007)

Johannes Brahms licenzia i Neueliebeslieder

In questo raro vacuolo del mio massiccio

classicismo conviene – oh, sì!…-  far spazio a questa postilla.

E’ il mio idillio segreto conla Sublime

Vedova ciò che qui ho inteso scolpire nei suoni;

è il casto sentimento che mi invase

dal giorno che la mia scarpa di viaggiatore

instancabile mi trasse dalla nativa blaue Erde (1)

in Bilkestrasse, a Dusseldorf. Recavo stretti

sotto il mio braccio i fogli e gli effluvi ambracei

delle mie quattro Ballate opera 10.

Tra scalpiccii e stridi di infanti festosi

dal suo alambicco Robert distillava

gli psichici filamenti della gloriosa

sua protensione dell’arte nella vita;

ma, già volgendo a estenuarsi la sua fibra,

in ogni giorno e ora di quell’impagabile

soggiorno in strenua confidenza e dialogo,

sorto istantaneo acquistava tenacia ferrea

nel mio animo l’impossibile sentimento

sospeso tra opposti poli di cuore e mente.

Si, un giorno non molto lontano, canticchieranno

con voce tremula, per feroce risentimento

sù dai precordi della razza antica,

fanciulle, fraulein, dame viennesi appena

divincolatesi dal lubrico abbraccio

di un tracotante fante vittorioso

di una Rossa Armata, questi motivi;

illuse di muovere passi lungo un sentiero

provvidenziale disposto da una mia arte,

tempestiva nei moniti, lungo i varchi

lasciati dai dignitosi casamenti

per riscatto futuro del loro sesso

orrendamente profanato.  E dunque,

sveltamente raccolte le macerie

e ricomposti nell’antico ordine

chiese barocche e arroganti monumenti,

a ogni capo d’anno ben pettinate

e ben avvolte in monture spumeggianti,

in ben più frivoli walzer si inebrieranno

o lanceranno in volteggi bastarde eredi.

 

E forse per aver posto radici l’equivoco

di quelle volontaristiche redenzioni

di animi e di corpi ormai distratti

per sempre da quanto per secoli si è detto

nutrir valore entro la linea-sgorbio

tracciata come confine all’intraprendenza

ancora sensata, dal gretto epicureo,

meno barbuti ma ben più ridicoli musicanti,

immemori di quale trafila dall’ancestrale

al civile ha percorso l’Orda barbarica,

di éra in éra raffinando ritmi e sensi,

pretenderanno di esprimere in cerebrali

complessi rumoristici e ossessivi

ridicole protensioni in un innanzi

che pure sapranno vacuo e impercorribile:

beati dell’applauso che al proditorio

renderanno nuovi esegeti e spettatori

della terrestre convenzionale estetica

in asettici teatri, in fumosi saloon…

Da tali Matres Matutae (2) le Neue Bahnen!(3)

 

(6 settembre 2006)

(1) E’ la c.d. terra azzurra da cui, lungo la costa del Baltico, si cava l’ambra.

Corrèla l’evocazione delle Matres Matutae (2) con la determinazione a classicismo orgogliosamente dichiarata nel secondo verso dal personaggio…

(3) Sornione – e malizioso…- richiamo del titolo dell’articolo con cui, nella sua  Neue Zeitschrift fur Musik, Robert Schumann annunciava al mondo della musica, il 28 ottobre 1853,  la scoperta del genio bramhsiano…

 

Nel sito a cui un grande spirito ha intonato il suo sé

Zurigo, millenovencentodiciassette,

Ottikerstrasse, invernale meridiana.

            “Dschoddo, vieni dal papà!” – Signore

con una bellissima testa bianca; passeggia

dritto e con aria distratta. Ora si ferma,

cerca qualcosa, cambia direzione.

Fanciulli che, ammirati del bel San Bernardo

di cui il vecchio signore si dice papà,

lo distraggono e lo colmano di moine.

Così uomo e animale ora si incontrano

ora di nuovo si distanziano e smarriscono.

“Dschoddo vieni dal papà!” pronuncia

con morbida inflessione in una pagina

di infantili memorie di Elias Canetti

‘Signore con una bellissima testa bianca’.

E quando poi guadagna la Banhofstrasse

scrigno di nostalgie di un trascorso dinamico,

la Banhof, di prospettive per lui più ariose

della forzosa dimora in accidia neutrale,

dalla infantile soggezione esplode

la monellesca verve; su un Ferruccio Busoni

marcato ‘Dschoddo-vieni-dal-papà!’

 

Oh, il ridanciano aneddoto, trascolorando,

mi traslata nel tempo e nello spazio,

epigone fantasmatico e ammirato

a sporgere pacata ammonizione,

dal ciglio di una pedana alabastrina,

a quei poi certo cresciuti in precario intermezzo,

dare segnale di un culto del genio e dell’uomo

a infanzie irresponsabili o in corso rischioso.

Ho appena ora ascoltato il possente fugato

finale dell’oratorio beethoveniano,

scorto un Cristo in angoscia sul Getsemani,

e ben ricordo un Virgilio mago deriso

in una certa incisione di Luca di Leida;

così, questo Ferruccio misconosciuto

da entrambe le sue patrie in brutale conflitto,

ancora una volta mi intriga ed emoziona.

 

Lo incontra Stephan Zweig, e pronto annota:

“I suoi capelli sono già grigi, gli occhi

velati di dolore: – A chi appartengo?… – chiede –

La notte sogno; e, al destarmi, mi accorgo

che nel sogno ho parlato in italiano.

Ma poi, se scrivo, impiego parole tedesche…-“

 

Lo angoscia la lotta cruenta di quelle due patrie;

al bar della stazione dinanzi a due vuote

bottiglie di rosso vino ripete con Holderlin:

“Wir sind nichts; was wir suchen ist alles!

E come non contrastare allora con rabbia

la sciocca volgarità che falcia il mana

nel sito a cui un grande spirito ha intonato il suo sé?!…

 

(12 giugno 2006)

Doto il mio personaggio del temerario assunto

Doto il mio personaggio del temerario assunto

di Friedrich Leopold von Hardenberg,

portentoso Novalis, però imponendogli

di tenere ben stretto sotto il braccio

il turgido volume in cui Lucien Lévy-Bruhl,

adunati gli arditi esploratori

dell’anima primitiva, i Dorsey, gli Hetherwick,

gli Spencer, i Gillen, i Gatschet, i Codrington,

gli Schmidth, i Mathews,  provvede alla esazione

dei tributi dovuti per le fertili

residenze trascorse in tropicali,

australi, polari siti, disfioramenti

di papille epidermiche in climi inconsueti

di natura e di logica, polarità opposte

di osservanti e osservati, di apprendenti e di appresi.

 

E allora lo udrai  anch’esso declamare:

“In quanto io credo che Sophie sia sempre

intorno a me e che possa apparirmi,

e agisco conformemente a tale fede,

essa è difatti intorno a me, per certo

infine mi apparirà, e proprio dove

meno l’aspetto. In me, può darsi, come

anima mia, e proprio così veramente

fuori di me; infatti ciò che è

veramente esteriore non può che

agire mediante me, in me, su me

– e in un rapporto delizioso”…(1)

 

Orripilano i Mostri Letterari

e Poetici di questa nostra età,

tachìmani lumache, claudicanti tigri,

miopi aquile, iene dispeptiche, avvoltoi

imblesiti; fanatici cacciatori di un perfectum

impassibile immerso in un pulviscolo

di scriteriati, onerosi perficienda:

“Così, dunque, – inquisiscono – pretendi

colmare il Vuoto di progettualità e riflessione

per cui molto abbiamo noi dovuto osare

tanto accanendoci, in solidale fervore,

noi sparuta pattuglia, contro legioni

di esaltati campioni dell’Anima bella,

anche esponendoci, dopo la màke astrusa,

a graffi e sputi di grinzose vivandiere?…

Osserva con quale impeto già cavalcano

i nostri metallici ponteggi la tua ridicola

barricata, come il nostro ingegnoso,

intrepido, ben più legittimamente romantico

Futuribile soffoca il tuo assurdo invito

agli ultimi indecisi di Megalopoli

perché disertino dalla gara che nella Storia

l’Uomo da troppo tempo ha ingaggiato col dio!…”

 

Ma poi, nel loro grottesco fraintendimento

di cosa e come e quanto il tempo che scorre

eraclitianamente deforma o coimplica,

di cosa la memoria clanica, anche

riluttando, inconsapevolmente ingloba,

scorto l’inizio del ben più erto sentiero

nel quale forse balugini un indizio

che ancora all’Uomo possa un domani dischiudersi

– provvidenziale tonico della mia

energia di vegliardo irriducibile

ai vezzi delle mode salottiere o accademiche -,

in esso avanzo con giovanile foga.

E, così sporto sulla quota nobile

del talento, del naturale sostentamento

che nel ben mantenuto mio complesso

fisiologico i balsami boschivi

infondono, mi attento in sarcasmi messianici:

 

“Tenete bene a mente che l’aforisma

è unica espressione e calza un’Unica!…

– declamo con ragazzesca improntitudine –

Sbirciate ben indietro nella memoria

del clan – se questo ancora vi resta possibile… -!

Accertatevi, compulsando abbecedari

e tecnici manuali, cronache, elzeviri,

che abiti hanno indossato nell’arco di secoli

le tante Sophie altre da quelle che

sgambettano a voi giunte incolonnate

in fumide autobahnne autoroutes autostrade

quando la torrida estate delle vacanze

nel Villaggio Globale fonde i roventi

asfalti e lascia allora levitare soltanto

equorei miraggi, impalpabili palmeti

dinanzi agli occhi di Annoiate e Fatue

– anonimo Gelangweilt und Leer -,

che scorrono sbadigliando sull’orlo dei

superstiti panorami e intanto ritoccano

nel loro miniaturizzato display rococò

i trucchi di quella cosmetica futuribile

di cui fanno unico orgoglio, nell’Era Finale,

lungo i crinali del landschaft monocromo

e altre poi gestiranno con orgoglio

specioso nell’Ultima Era dell’Umano Creato…

 

Quanto queste Sophie ‘altre’, trascorrendo

per la terrestre quotidiana lima delle

medianiche o native facoltà, fanno

mostra spavalda a inebetiti spettatori

di spalle e natiche ben rosolate dal sole,

impiastricciate da odorosi lenimenti?,

quanto dei loro seni hanno posto in mostra

parziale e maliziosa a sguardi di ingordi?,

con che sorrisi all’ospite accaldato

o infreddolito avranno pòrto la bevanda

ristoratrice estratta con piratesca

arte dai frutti marci della stagione?

E, anche nelle ordinarie contingenze,

come hanno modellato il loro discorso?

Quale profumo avrà intriso la parola

che un tempo sgorgava da bocche più pudiche?

In che mansioni – e per parabole più estese –

avranno impegnato le loro energie

mentali e fisiche tra ciascuna alba e tramonto?,
in quali sogni avranno scovato le chiavi

con cui ben disserrare poi gli ermetismi

di altri esistenti spasmodici nella veglia?…”

 

In cima all’arduo sentiero, quando neanche

avverto più il brusio della quisquilia

valligiana, mi viene incontro il venerando

fantasma di una Penelope Fitzgerald

sorniona e riconoscente; nella mano

il suo incantevole libro ‘Il fiore azzurro’.

E mentre ben percepisco allora come

in Antverpen si mescolasse ogni mattino

nella cloaca il colore che raschiava

dalla sua tavolozza Pier Paolo Rubens

con l’urina che avrebbe fra poco minto

Elena Forment diciottenne uscendo

ben appagata dal rito notturno del sesso,

il corpo stretto in morbida pelliccia,

mi rendo esatto conto che non convince

perché appreso in un libro del mio scaffale

questo giudizio attribuito a un certo

Friedrich von Hardenberg o a un certo Novalis,

ma in quanto espresso con ben viva voce

– tra ben rifiniti dettagli del corso vitale

di lui, della casa, del clan, della razza, del secolo… -,

dal suo ben più plausibile Personaggio,

quello di cui Penelope appunto ha reso

con tanta meticolosa cura l’essenza

vitale ed esistenziale, il senso e il gesto.

 

“La miniera non viola alcun segreto

della Natura; anzi è opera industriosa

mirata a rendere liberi i figli della

Madre Terra, la vita vecchia come il mondo

che il civile pattume  ha intrappolato!

Da quanto tempo attende sottoterra –

l’orecchio teso a cogliere i primi rimbombi

del piccone brandito dal minatore –

il Re dei Metalli? E che cosa sentirà

quando infine potrà sporgere il viso

alla luce del giorno, per la prima volta?…”

 

“Ah, – la provoco – amica, in quel tuo ironico

circostanziare minuzzaglie quotidiane

come ben penetriamo il vissuto degli altri!,

come ben annusiamo il turgore vitale

tra i sentori essudati di febbri malefiche!,

come il nostro trasporci fa vibrare

in queste nostre membra infreddolite

il senso di una musica appena sgorgata

da gole spericolate nel Coro e in ‘a solo’!…

Ma se appunto così soltanto ci è dato

di apprendere della vita degli altri il senso,

scrolliamoci di dosso il trattato, eleggiamo

il romanzo e il poema a serramento

dell’ermetico e a unica chiave che lo apre!

Se è appena la loro musica a far comprensibile

il discorso, aboliamo il concerto, sussurriamo

all’orecchio di solo qualche complice

– e in posa, in disposizione, in clima opportuni…-

la trama inalterata, trasformiamo

in termopolio, in piscina, in palestra, in naumachia

l’Auditorium ormai inutile ed impratico,

convitiamo al commercio con gli Eletti

i soli disponibili ad elezione!…”

 

Così, il tuo libro, Penelope, divenga il mediante

tra quelle infatuazioni e fantasticaggini

che il me giovanile, impegnato allora

in una scomposta lettura di “Inni alla notte”,

in malinconiche inchieste per anni irretirono

e questa che ora scorgo adattabilità

di esse al ‘corto poema’ che insieme potremmo

siglare chiudendo il tuo libro: “Il coraggio è più (2)

della sopportazione, è la forza di crearti

la tua vita nonostante tutto quello che

Dio o l’uomo possono anche infliggerti,

così che ogni giorno e ogni notte

siano come tu li immagini. Il coraggio

ci rende sognatori, ci rende poeti”.

 

Sì, ora che, infine, smagato dalla

spericolata scepsi fourieriana,

il me senile incontra la tua resa

arguta ed humourosa di quel ‘credo’

librato in irripetibile esperienza,

ottima delle sorelle, anch’io la compongo,

giuocando sulla tastiera bachiana il ‘Capriccio

sulla partenza del fratello dilettissimo’,

in ardue trasposizioni neumatiche e grafiche,

la mia lettura del genio irriducibile

che lascia traccia indelebile in distese di effimero!

Chiudo il tuo libro, sicuro che lo scettico

il più incoercibile del verbo di quel Friedrich

– o trasognato, ma pur, nelle strettoie

del sito, dell’età, del rango, del clan,

sperimentato ed esperiente Friedrich!… –

non potrà non vederlo ora balzare

vivido e ben inquietante dalla tua pagina,

infine, un ben più affidabile, ma anche ‘tuo’ Novalis.”

(12 giugno 2006)

 

(1) (Novalis – Frammenti; n.23)

(2) (Penelope Fitzgerald – “Il fiore azzurro”, pag.167)