Anni 2000

“Padre, quand’anche tu non fossi il mio…”

Preludio lacrimevole alla truculenta epica

del suo malaugurato primo coniugio:

Luglio del millenovecentocinquantanove:

“…Trieste come una nave inaffondabile,

 – ma:

questa città per esempio di tante…

 

Trieste – dico – come una nave inaffondabile

giunta da luoghi e tempi assai lontani

costretta dai marosi nella rada;

azzurro cielo, colline verdi e cotte,

mare di rame, polvere di argento,

folle operose in casa e per le strade;

salgono le maree, coprono il molo,

e le montagne sullo stesso asse

seguono l’albatro in cerchianti echi

fino a luci lontane, nidi tiepidi

nel capriccio dell’ala imprevedibili…

 

Vicolo delle Rose; il colmo dell’erta strada

che da Scòrcola sale ai colli, e di là,

tra assolate vigne e brune pezze

di cupi castagneti, dà a Opicina,

alla frontiera balcanica…

L’ Anziano

Magistrato Asburgico – poi Italiano –

che una muliebre zàcola ha reso muto

e taciturno per diuturna ascesi, còlto

mentre in isterico pianto esplode la nevrosi

dell’unica figlia, nubile e attempata –

“Io, sì, – strepita singultando – te ne dissi!… Ma tu…”;

lui, con il tono di un Demòdoco ormai da tempo

rassegnato al mentale discorso, alla pantomima

di flessuose fantàsime anche più adatte

a raffrenare le domestiche vestali,

spalancare le braccia, e consentire:

“Ebbene, chiamami dunque anche tu padre!…”

 

Ah, come di colpo, allora, gli tornò in mente

il destro incipit del Ligure Cultor di licheni!:

Padre, quand’anche tu non fossi il mio!…

e non era il suo; non lo era, no!… Ma da allora

come e quanto cercò lo divenisse!

E come da allora, compunto, affettuosamente

gli tenne testa nell’intrapreso dialogo

in cui lasciavano espandere entrambi la loro

da troppo tempo costretta umbratilità!

L’uno quella tua traversia balcanica del sedici,

poi il suo rasserenante rifugio tra i lirici greci,

cerebrale koinè di loro razze e sintagmi

sgorgati in tane distanti e con opposte stìgmate;

e quell’identico in loro culto istintuale

della zolla, da vangare inseminare accudire

fino a che dia poi gemma, fiore, frutto!…

 

Ha, sì, giusto diritto egemonico, la Madre,

su vita, iniziali pensamenti della prole,

poiché essa sopporta il carico e lo conclude

con spasimo e rischiando…; ma il Padre che

più spesso esce per sempre dalla penombra

della casa fondata con felpato gesto

e poi lasciata come saldo patrimonio

di chi volesse occuparla in un domani

magari ancora forse possibile e non solo precario,

poi, quando la cicala assordi, nel caldo estivo,

il Maschio mèmore, anch’esso reso taciturno

da traumi, sospetti, rigurgiti di Osteoporosiche

Vestali, quale ermetica stanza si fa nel cuore

dell’altro maschio in ben più stoico declino!…

Padre, quand’anche tu non fossi il mio!…

 

Ah, sì, dunque, Lemuel, sii tu, almeno,

qualche poco indulgente con il tuo Jonathan!…

Ricorda: Luca, primo, diciassette: “Ut

convertat corda patrum in filios, et

incredulos ad prudentiam iustorum.”

 

(Cori, ottobre 2012)

 

Dopo composto il ‘mio’ Imeneo di Saffo

“Ho volto in suoni – che

mi basterebbe tu sola riconoscessi

ben congruenti con quel che una volta avvertisti,

trepidando come una madre a cui un severo giudice

abbia sottratto la figlia appena concluso

l’allattamento accompagnando una delle

tue sumpàiktriai all’altare di Afrodite… -;

quell’organico complesso che,

pur reso quasi nudo superstite dal rodio del tempo

e dalla furia assassina delle orde barbare,

transitate per secoli di storia,

ho scorto troneggiare come erma spavalda,

nel tuo, nel tuo “Imeneo”, Saffo.

 

Nitore di marmo pario del tuo lirismo castigato

e, anche, un tantino ironico; nitore

che abbacina in questa disperata stagione del Genere,

nitore che  già abbacinava

–       eppure altrimenti e ben più utilmente…-

me già giovinetto, insofferente nella

asciutta didascalica della scuola,

dei maestri insinceri, dei compagni

destinati a carriere di borghesi smemorandi…

 

L’ho volto in suoni, io, in questo mio tempo

il tuo Imeneo, Saffo, io, in questo mio tempo

proteso testardamente e avaramente

verso l’ammasso informe

di assai impropabili futuri,

in questo mio tempo

dimentico delle proprie radici ancestrali e cosmiche.

L’ho volto in suoni, in questo mio tempo, io,

costretto a dire del mio trasporre Saffo in suoni,

con persone che più non hanno notizia di una Saffo…,

io giunto al tratto estremo di un mestiere

tenuto per decenni in sorvegliata misura

di emozioni e dottrina, e fatto infine

capace di ravvisare come levita

nella trama dialettica l’estro poetico,

come sul materiale supporto la figura

guarnita di icastica enfasi dal pittore,

mentre interpreta il fatto addita l’idea,

e anche nel compassato colloquio civile

inconsciamente travasiamo quanto

suscita nell’animo nostro l’esperienza

di quello che altri crearono al colmo di un estro

che un Dèmone sempre rende tremendo e  incoercibile…”

 

Senti la truppa dei ritardatari?

Qualcuno che da lontano avverte,

intanto altri  frustando le torpide  giumente:

“Stiamo, sì, stiamo per giungere, stiamo!…

Che vuoi,  sempre, si sa, nella comitiva

una o due squinternate si trovano

ancora affannate  nella cerca del pettine oppure

dello  spillone prezioso da esibire; e proprio

mentre le più sbrigative e assennate già

hanno occupato il posto più comodo sul carro,

e  smaniano… Ah, come vorremmo

già esser giunti, noi, già esser presi

nel fervore dell’attesa, e anche noi intesi

a spronare l’invelenito carpentiere:

”Più sù quel benedetto architrave, tràilo!…

Deve passarci sotto lo sposo, sai, uno che

è più grande di un uomo grande, è uno che

pretende somigliare ad Ares! (e chissà in quale

progetto di maschilistica schiavitù

ha già inserito il nome della meschina che

intanto freme in libidinosa attesa del rito, lei,

appena ieri sgusciata fuori dal tuo partènio, Saffo!…)

 

Ah, sì, il musicale gesto è mio, Saffo,

e se bene si adatta al persuadente

tuo discorso come ingegnosa impresa

questo è perché si transustanzia il sentito

sprizzato dalla vitale materia cosmica

in altri possibili media e in forma scorre

nella vena alessandrina di un altro poeta oggi!…”

 

(Cori, 16 agosto 2012)

“… Femmes chevauchant vagues…”

Ad Alain Touraine,

con fraternale trasporto,

il poeta da decenni inascoltato presagente.

                                                               

“. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .             

Femmes chevauchant vagues… ho per tempo ritratto io,

le Femmine che cavalcano le onde,

la esile e volitiva, la muscolosa e provocatrice,

la pienotta ma spavalda, la mastodontica e imperiosa,

la commediante e la lirica, la bizzosa e la risoluta,

la riflessiva e l’elettrica, la frenetica e la elegiaca,

quella con voce sottile ma penetrante e suadente,

quella con voce argentina e inebriante,

quella che lascia appena cadere i suoi monosillabi

fuor della chiostra fremente che la spuma assedia,

quella che con spedita enfasi redarguisce

il comodo permanere nel consueto,

la ansiosa di scambiare confidenza e la riservata,

la puntigliosa e la festosa trascorrente,

la Fakma, gloriosa eroina della Banda Giunchiglia,

sortita dal fourieriano vangelo del ‘Nuovo mondo amoroso’,

in Cnido tradotta prigioniera e infine acclamata Santa

e ora sull’onda eretta come marina sirena,

la Effi Briest in composta mansuetudine

dei suoi trastulli verginali o adulteri

stanata dall’umbratile suo Autore,

con gesto ardito,  dall’andito in cui l’avrebbe

la guglielmina etica sequestrata,

la Pentesilea di Kleist e la Leonor di Machado,

la Susanna di Goethe e la Maria Grubbe di Jacobsen,

la Laura di Petrarca e quella di Carew,

Penelope e Molly Bloom,

la Saffo signora del Tìaso, Casa delle Muse,

quella che recita mesto ricordo

di Anattorìa ‘dall’amabile passo’,

e quella maliarda con Faone  e, suo romantico

doppio, delusa, in Egeo precìpite…,

Aghesikòra dalle belle caviglie, e,

appresso a lei, Aghidò scalpitante

come un cavallo colasseo dietro a un ibeno

nel partenio di Alcmane, volte a porgere

il manto della notte alla dea del mattino

e, infine, alcionesse energiche, soccorrevoli

per l’ormai tremebondo poeta-cerilo…

E poi Marion capricciosa e Peronnelle intrigante,

le Esther, le Rebecche, le Vanesse, le Varine

sacrificate nel carnet swiftiano,

le Anne, le Federiche, le Lily,

le Carlotte, le Marianne, le Terese

trascorse discrete o invadenti in romantici eventi,

Anne, Charlotte, Emily Bronte e Jane Austen,

Katchen di Heilbronn e Pentesilea,

George Sand in divertito spasso con Clara Wieck,

la Emma in fuga dall’alcova tiepida

del dottor Bovary depresso ed esangue,

le Anne oppresse dal massimario uggioso

dei Karenin, le Kitty benefiche agli ansiosi Levin,

Selma Lagerlof in discorso con Sigrid Undset,

Hildegard di Bingen a far girandola

con  la Dame au liocorn, Virginia Woolf                                              ,

stringere la mano di Vita Sachwille-West,

Anna Achmatova discorrere con Lily Brik,

Natascia, cresciuta tra eroico Andrej e sodo Bezukov,

tenere strenua confidenza con Lara,

le Elisabeth, le Alme, le Else, le Olghe

ispiratrici o custodi del frutto del genio,

e, strette per spontaneo afflato nella trama

di una mia creatività effusa in decenni,

sciolto il nesso corso tra i nostri cuori e menti,

le mie Nuvenie sicure, Fàkma, Temelia,

energiche capitane della Truppa,

della Masnada Amabile riuscita

infine vittoriosa nella guerra

all’estenuato regime maschilistico

iterativo, alienante e snaturante,

composto il pattume estetistico – contesto

di aleatorio e precario – nella Discarica,

inastare il vessillo femminista

ornato del fourieriano papillon

sul megalopolitano Municipio…:

Eutilia, Isocraè, Kenòtes, Gumnè,

Pelarghèia, Licìska, e tutte le altre…

 

E poi tutte le bene – o anche mal – giudicate,

le anelanti a vendetta del loro equivocato,

le appena appena placate dal tardivo verdetto,

tutte le arse un tempo dopo subite

biliosa tolleranza e stremante incomprensione,

le frustate, le lapidate, le mal commerciate,

le saziate del pregio fatto del loro gesto,

quelle di cui ho conosciuto nome e trama vissuta,

la tua Melencholia, Albrecht, la tua

Maddalena, Luca, in sacrale danza.

 

E poi Miriam Makeba, quella che cantava

con voce-barrito di elefantessa ctonia,

verace genitrice di tutte le razze e sessi,

gestora versatile di tutti gli strumenti e timbri,

e con lei la vecchia contadina il cui gusto Po Chu I

tenne a misura del merito dei propri poemi

appena composti, Euridice costretta

dall’empito protagonistico del suo Orfeo

a vagare per sempre nel regno delle ombre,

“Elena destra a offrirsi al brillante Paride

mentre una mite Brigida inforna patate,

mentre una ligia Fatima snocciola datteri,

mentre una razionale Dorothea

sprimaccia la biancheria calda dell’alcova,

Sofonisba trascorre con leggerezza

da segreti imenei a nozze plateali…”,

Arianna abbandonata dall’opportunista Teseo in Nasso,

soccorre il Dioniso Barbato di Boeto, e

ora va sottobraccio con la mia madre terrestre,

la prolifica, “la spesso concupita

negli incestuosi, innocenti, infantili sogni”,

Trotula salernitana, medichessa in patria,

accorta consigliera di puerpere in terre

boreali e intesa mitica “Dame Trote”…,

Eloisa sensuale e spavalda nel saio forzoso,

Margaret Roper che serra tra le braccia

il cranio  ossuto del padre Thomas More

riacquistato dal boia e tenuto in custodia

per più decenni nella dimora verginale,

e poi per sempre nel proprio stesso avello… ,

Diane Fossey paladina dei superstiti Oranghi,

nostri vilmente falcidiati Archetipi;

tutte le Olghe le Sonie le Ludmille

del romanzo sarmatico, e le Viridiane

del romanzo cantabrico ed iberico…

 

Comparse come in vortice nella mente insonne

che l’arsura estiva aveva frustato

tutte si lasciarono mansuete disporre

nel battagliero, nel rivoluzionario syntagma,

sulla tavola lignea dall’immacolata imprimitura,

mio Golfo di Guinea, mio Mar di Ohotsk,

mio Mar di Barents, mio Golfo del Bengala,

mio Golfo del Messico, mio Golfo di Carpentaria,

mia Baia di Hudson, mio Mediterraneo!…;

e ben le vidi con slancio impegnarsi

a fustigare la colpevole inerzia

dei loro antagonisti dalla bocca bavosa,

andanti con passo tardo e neghittoso incedere,

io tuttavia incitandole: “Orvia, replicate

voi talentuose, voi talentuose, alla Sibilla,

alla Sibilla che stremata farnetica

Apozanèin, apozanèin zèlo!… quando

il Goliardo Europeo in vacanza lussuriosa

e inconcludente, abradente e dispendiosa,

la interpella sornione dalla pagina

del petroniano Satyricon: Sìbulla, ti zèleis?…

Ora che finalmente scarseggia il carburante

fetido che manteneva in insonne frenesia

i motori incamiciati da guarnizioni

nichelate, splendenti, come dettava

il Manifesto folle prima che

il Destriero, irritato sulla dolina

dal funebre frastuono delle bombarde,

nitrendo disarcionasse e calpestasse

il corpo dell’Azzardoso Futurologo,

esso con selvaggia energia sconfiggendo

la frenesia prometeica, lo sperpero villano…

 

Ah come bene serrano tra le cosce

le onde e le governano! Ah, come destramente scivolano

sui pentagrammi ondulati delle onde

le mie Femmes, come intese a placare

gli Oceani che la vostra civiltà grassa, durata

fetida e petulante per più di un secolo,

ha infettato! Ah, come bene li sospingono,

gli Oceani gonfi di nutriente plancton,

a specchiarsi in ritemprante assopimento

nel lindo bacino argenteo del ventoso Egeo

che crepita di stridi di inebriati alcioni

discantanti nel modo misolidio,

in ben sostenuto ritmo…

 

Ecco; ho spinto nel flutto la nassa in cui per spontaneo afflato

erano state congiunte per anni tra loro e con me;

e subito la trama si dilatò come una immensa ragnatela

sui flutti, sicché i mari sfociavano in oceani,

le onde si assommavano in tsunami,

l’acqua che un tempo e per gloriosi secoli

era sgorgata dalle rocce pindariche –

àriston mèn udor!…àriston mèn ùdor!…nel mio orecchio

strepitando… – finalmente si mondava

delle morchie gommose, del fetido putridume

che il secolo frenetico e avventuroso,

che la dissennata intraprendenza

dell’altro Genere e Sesso ci aveva

spremuto e con pazza ostinazione diffuso,

intanto nell’etere snebbiato svolazzando

le guarnizioni nichelate di ormai dismesse astronavi,

sui saldi basolati di continenti ed isole

mandrie di vigorosi puledri nuovamente caracollavano…

 

Così, aderto sulla sua sponda occidentale

nella innocente nudità infantile,

spinto lo sguardo sul più remoto orizzonte,

scorgevo nell’etere limpido levata

la Antipode Montagna con ancora

ancora  impresse le orme di Aborigeni

eretti a sfida imperterrita, dall’Alchera,

di tanti adepti biliosi della Setta Scrivana

e Ruffiana, gestora di crediti e premi per asfittici

poetastri, tendevo rasserenato la mano

alla da sempre Beatificante e Beatrice

questi versi esponendo come dovessero

esser rivolto armonico della triade dantesca,

epigrafe impressa sulla Porta di Vita Nova,

musica di introibo all’Altra, alla Nuova,

alla Muliebre, alla Naturistica Civiltà!…

 

(Cori, 6 aprile 2012)

 

Che ci si offra concreto il favoloso

                                                        

a Massimo Pompeo

                                                        dopo assaporato ‘ex tabulis maritimarum’…

 

Ah, Massimo Pompeo, questi tuoi cognomina

che in classica grandiosità risuonano

mentre con opera insonne perseverando

sporgi il volto barbuto – ma: sorridente!…- di Vulcano

protendendoti sopra il tavolo o il torchio

dal tuo antro percorso dai bagliori

della fucina in perenne alimento!…

Là sorgono a vita le tue ‘carte nautiche’

dove sottili linee solcano tinte iridescenti,

il legno palpita come lava emergente,

l’esperta mano il favoloso rende concreto:

terre che si dislargano nel mare,

mare che circuisce e rastrema le terre,

Europa che coglie fiori sui prati di Tiro

e Giove che, invaghito di lei, mutato in torello, l’abbranca…-

il Dio che dialoga con la sua sakti, Shiva con Durga?…-

 

Così il tuo gesto in me ridesta il ricordo

di quella mia giovanile segregazione

spontanea, nella casa al mare – quella che

la trancia urbana del familiare clan

per uno stizzoso capriccio disertava…- e

di quel mio autoritratto a penna in posa orgogliosa

che in splendidi meriggi vi tratteggiai,

con temerari versi in margine – inconscio groviglio

ammaliante, rifletto oggi, di logica tantrica?…-,

ma anche del misterioso ‘cenno’ che,

– nella tregenda del mio corso maturo –

dalla cima pietrosa del Monte Lupone,

scorsi volgermi Ulisse dalla rupe del Circeo

in uno splendido mezzodì di aprile…

Dunque ora so perché avviene e come avviene

che ci si offra concreto il favoloso!…

 

(Cori-Fontana Mandarina, 14 marzo 2012)

Lillipuziana pantomima delle Tricomonadi / Ballata-pantomima delle Tricomonadi

Lillipuziana pantomima delle Tricomonadi

 

Sbloccati i rugginosi boccaporti

del Vascello Civile in bel diporto

verso altri e più temerari futuribili

(stazioni stratosferiche, cosmici imperi)

riafferro estro tono e timbro della

lillipuziana ‘Pantomima delle

Tricomonadi’, dei minimi in tripudio

ora festoso tra i due regali pubi:

della Sabea Bilqìs e di Salomone

intesi all’esclusivo festino erotico

e alla fusione dei giganteschi imperi.

 

Ballata-pantomima delle Tricomonadi

 

Semicoro primo

Noi, le ‘candide’ giulive

nei più sordidi angiporti,

noi parenti in buona stima

di quei tarli che si impinguano

del buon legno degli scettri,

tricomonadi pruriginose

instancabili flagellanti,

disinvolte spietate amazzoni

entro lande microscopiche

percorriamo immensi spazi,

recapitiamo sentenze

inappellabili, ergiamo

capestri per lente agonie.

 

Semicoro secondo

Noi, le ‘candide’ giulive,

noi consorti in buona lena

di quei vermi che corrodono

con impegno quotidiano

i diaspri ed i cammei

sfolgoranti sulle fronti

in diademi ed in corone

di arrivisti dominanti,

tricomonadi pruriginose,

staffilatrici instancabili,

siamo l’unica speranza,

siamo l’ultima risorsa

delle plebi che voi opprimete.

 

Semicoro primo

Noi, le ‘candide’ giulive

tricomonadi pruriginose

siamo l’unica speranza,

siamo l’ultima risorsa

delle plebi da voi asfissiate

con il fumo del vostro orgoglio,

delle plebi da voi smagrite

con rapine e con balzelli,

delle plebi da voi schiacciate

con il peso del vostro arbitrio

negli spazi congegnati

per pacifica convivenza.

 

Tutti

Voi, diretti a mète astrali,

pretendete che il viaggio avvenga

tra festini lussuriosi;

stivati in lussuosi carriaggi

i preziosi e i superflui ornamenti

da esibire al trionfale arrivo

al Supremo Sornione Egemone,

trascurate l’esatto conto

di quegli infimi naturali

per cui corpo e regno durano

in organico complesso.

Opportuna e tempestiva

dalla Cattedra Biologica

giunga dunque la lezione

di cui siamo strumenti e araldi!

 

semicoro primo

Noi, le ‘candide’ giulive

nei più sordidi angiporti,

noi parenti in buona stima

di quei tarli che si impinguano

del buon legno degli scettri,

tricomonadi pruriginose,

instancabili flagellanti,

disinvolte spietate amazzoni

entro lande microscopiche

percorriamo immensi spazi,

recapitiamo sentenze

inappellabili, ergiamo

capestri per lente agonie.

 

Tutti

Noi dall’ilo del vostro consistere

organico, da dentro le cripte

del vostro viscido corpo

quand’anche odoroso, dal tetro

scantinato del vostro casamento

cellulare, dai retrattili budelli

in cui tenete con stentorei strepiti

i vostri festini erotici, brindate

con sperma e sfegma, noi valletti e araldi,

coppieri sgattaiolanti gratuiti e anonimi,

giungiamo in processione salmodiante.

Con mosse furtive e destre ci sistemiamo,

al termine dell’orgia, sulle mucose

delle stremate vulve, dei membri affranti,

facciamo drenaggio e remora dei vostri

pretenziosi programmi di orgoglio e imperio!

 

Semicoro secondo

Noi, le ‘candide’ giulive,

noi consorti in buona lena

di quei vermi che corrodono

con impegno quotidiano

i diaspri ed i cammei

sfolgoranti sulle fronti

in diademi ed in corone

di arrivisti dominanti,

siamo l’unica speranza,

siamo l’ultima risorsa

delle plebi da voi asfissiate

con il fumo del vostro orgoglio,

delle plebi da voi smagrite

con rapine e con balzelli,

delle plebi da voi schiacciate

con il peso del vostro arbitrio

negli spazi congegnati

per pacifica convivenza.

 

Tutti

Più nel tempo si protende

la durata della specie

e più labili, più effimeri

gli individui vi hanno posto.

Si frammenta in illusioni

e in promesse inaffidabili

l’orgogliosa preminenza

dei più destri nella mossa,

manigoldi intraprendenti

o ben pingui ereditieri.

Ma al puntuale resoconto

di decenni, secoli, ère,

non compaiono vessilli

né si accendono colori

sulla truppa che ora ha smesso

tanto lagni che sussiego;

reca torpida carcassa

in identico squallore

chi poteva e chi soggiacque!

 

(Cori, 22 dicembre 2011)

 

Il ‘’Pensatore’ di August Rodin in promenade fuori del mio teatrato

Un ghiribizzo del mio bilioso Autore

mi sbalza fuori dal saggio di Daniel Rops

e mi pone a indagare con piglio censorio

quanta porzione del tempo mattutino

trascorre la gente comune e quella ‘di pregio’

a reggere in buon raccordo mente e intestino;

infine mi scaraventa nel chiassuolo

di Jonathan, l’estroso Decano irlandese,

durato per decenni – e quasi da nascita…-

in stallo paralizzante del senso e del gusto,

irretito da una nevrotica pudicizia

nel dubbio se proprio quel Dio di cui pratica il credo

non abbia, impastando l’umano, sgarrato misure

col porre in adiacenza strumenti del sesso

fertile e fetidi espurghi di mucose cloacine.

 

Qui, nel chiassuolo in cui annaspa Jonathan

nella per lui difficile  escrezione

del fetido detrito per lui orripilante,

per lui maldestramente situata dal creatore

quando impose adiacenti nel corpo dell’uomo

la fetida cloaca e il truogolo in cui,

bisbigliante salvifico opificio,

mulinando edoné si perpetua la vita:

“Io rappresento – proclama con ctonio rombo –

il genus immortale sul suolo terrestre

con la bronzea evidenza della forma!

Io sono la piramide che ha la base

ben piantata sul chakra Muladhara,

il vertice nel pensiero, risorsa e rischio!…

 

Un giorno comparirò nella mente insonne

di un certo Auguste Rodin, a Meudon, Paul Dukas

rifinendo appuntino il suo“Apprenti sorcier”,

Antonin Dvorgak il proprio “Z nového svéta”!

Reso maturo da fiamme in ardita fusione,

in fulgore glorioso verrò esposto

alla vista di pavidi borghesi,

di fantasiosi idealisti, di metafisici

ancora insonnoliti, onde dar certo conto

che assai ben congruamente le energie

in natura latenti si compongono,

e poi il composto sospingono ed evolvono;

per questo lo sterco scorre lungo mucose

umide, il muscolo si distende nell’ebbrezza,

ma il chiodo frena a tempo l’estrosa voluta…”

 

E starà a te, se questo foglio leggi,

carpire lo sconvolgente concetto che,

con grammatica nuova e con estro fantastico,

in esso è stato trasfuso di un poetare

inteso a penetrare in anse e in golfi

di una ben palpeggiata fisiologia,

quella che fu scartata dal glossario

estetico che Accademici Schizzinosi

hanno per secoli imposto a platee debosciate;

inteso a penetrare nei problematici

inviluppi per cui la mente spavalda

e temeraria ha tratto l’intero Genere

a urbana confidenza con la Catastrofe

quotata come esito logico e coerente

di un giuoco articolato e pur dilettevole…

 

(Cori, 3 dicembre 2011)

Parlo con gli alberi, io!

Parlo con gli alberi, io;

io li ascolto parlare e cantare

nel silenzio austero della mia montagna,

quella che ho a lungo esplorato celandone

le vie intime all’escursionista pettegolo,

io, miles a giusta ragione gloriosus

dell’autentica passionale ecologia,

al miles gloriosus dell’ambigua ecologia.

 

Sì, io parlo con gli alberi, io!

Io, sì, posso parlare con gli alberi,

posso ascoltarli mentre parlano e cantano

nel silenzio ieratico della mia montagna.

Giacché gli alberi parlano e cantano,

fra loro; e con me, benevolmente accessibili.

Essi parlano e cantano, gli alberi,

nell’aria tersa e balsamica della nostra montagna,

in modi che in qualche senso somigliano

al nostro parlare e cantare sporadico;

ma essi parlano e cantano con un fervore spontaneo

che il nostro parlare e cantare ha perduto per sempre.

 

E anche gli uccelli,  parlano e cantano

nell’aria tersa e nutriente della nostra montagna,

in toni che gli alberi comprendono e apprezzano,

più come il delfino e l’orca parlano e cantano,

per loro benevolenza, dall’onda ancora nutriente

in qualche ansa del già violato Oceano…

Essi, gli uccelli, parlano e cantano

nell’aria tersa e nutriente della nostra montagna,

più come il lupo e l’orso parlano e cantano,

per loro benevolenza, dal bosco ancora prodigo di frutti

in qualche landa della troppo profanata Terra…

 

Sì, gli alberi e gli uccelli parlano e cantano,

tra loro, e, per loro benevolenza,

talvolta con me e per me.

Ma l’albero curvato dal vento

proprio alla svolta dell’erto sentiero –

manufatto di un antico viandante

forse persino scalzo, forse ebbro

di gioia panica, e in bacchica ascesi… –

canta un motivo di dolorata nostalgia, ormai;

quello cresciuto nel folto della foresta,

là dove cessa la traccia dell’umana invadenza,

canta con foga sarmatica motivi

borchiati da intrepide dissonanze,

ammonisce e quasi minaccia l’estraneo

mentre il vento ne percuote la fronda;

e, quando lontano rimbomba il tuono,

la schiera dei suoi compagni solidali

intona un coro che inebria e stordisce,

inebria e stordisce più me che, per coglierne il senso,

mi sono come tramutato, trangugiando il mio cibo

con foga bestiale, e la formica nutrendo anche

delle sue briciole che quello stesso vento

intanto veniva spargendo al suolo,

nel piccolo pezzo di prato, microcosmica

Amazzonia non ancora o forse non mai disboscata,

vergine Natura che per alcuni istanti,

come anch’io librato nell’azzurro,

ho sogguardato dall’alto…

 

(Monte Lupone, 10 maggio 2011)

 

Poiché assurda è l’insistenza…

Assai prima che Shirley, in Bronte,

dopo appena aver descritto

un pauroso temporale

si lasciasse andare a dire:

“Pure, quanto è consolante,

quando tutto torna in calma,

che si scorga trasparire,

tra le nuvole che ora si aprono,

quel radioso balenio

che assicura: intatto è il sole!…”

 

Assai prima che Charles Fourier

conformasse la sua Eroina

spavalda in ‘guerre amorose’,

Fakma in abito e con intese

per cui il Turbine di Cnido

ben dovrà acclamarla Santa…

Assai prima che Claude Debussy

profilasse in ritmo e suoni

Fauni e Ondine, Ninfe e Naiadi

convincenti a godere in terra

deliziante senso e sesso,

saldi stavano i ghiacciai

sulle creste delle Alpi,

esprimevano limpide acque;

i salmoni con balzi atletici

risalivano i fiumi in piena,

puntualmente replicavano

in stagioni non deludenti

il rituale pellegrinaggio

alla Mecca dell’ancestrale.

I percorsi sotto il sole,

sotto vento o pioggia, allora,

il viandante misurava

a giornate o anche a nottate,

le distanze in passi, in gittate

o di dardo o di giavellotto;

si innalzavano santuari

in siti che dèmoni ansiosi

di colloquio con gli umani

dotavano di fascino e aromi.

 

Era quando l’intemerata

Eloisa sapeva opporre

a quel dio che altri intendeva

come torvo sequestratore

di un suo corpo peccaminoso

il diritto delle passioni

degli umani finché in terra…

Poco appresso una Perronnelle

infuocava un anziano Guillaume,

dava spunto a quella vena

per cui un “Livre de Veoir dit”

fonde senso e suono, cose

e parole en un vergier

un vergier qui bien ressemble

de doucer le biau paradis

queve et adant eurent jadis…    (Guillaume – Livre, vv.3886 sgg.)

 

Pur se enorme

grande è il libro:

quando arido è il contrappunto

fervorosa è la poesia,

il concetto lambiccato

porge in mèlos avvincente.

 

Ahi, che non vedremo mai

più che come in fantasia

kòre ateniesi uscire

nel plenilunio estivo

all’alba, succinto il peplo,

nudi il piede e la gamba,

in olezzanti prativi

e raccogliere in poche tazze

poche gocce di rugiada

per comporle in pozioni benefiche,

filtrare amorosi elisir!…

 

Non c’è più spazio per dire,

nel verso, dell’error fatale

a me, a te, agli altri, alla Specie!

Siamo preda di pochi despoti

ben astuti e determinati;

convinti che sia inesauribile

la miniera planetaria,

ci costringono a scavarne

anche gli anditi più riposti.

Misurano e tassano essi

gli spazi entro cui ci concedono

il sopravvivere, scorrere

per produrre lavoro o anche

transitare in schedato diporto…

 

Forse è l’ora di dare il passo

in quell’Oltre  misterioso

da cui a te giungono ancora

o acquerelli di Utopia

o frastuoni di Sansculottes

poiché assurda è l’insistenza

del tuo biasimo, se i pochi

che vorresti giunti in schiera

si ritengono soddisfatti

appena di questo:  ‘…mandare

a dire all’Imperatore…’

 

(Domenica 4 luglio 2010)

L’estrosa corrispondenza delle parti

La pera che maneggio matura, strappata

alla fronda ramata e gettata a terra

dalla tempesta notturna, possiede un corpo

ben modulato dentro curve ardite,

un capo di fanciulla indisponente,

ventre capace e mammelle prosperose

ben custodite in sottile tegumento,

un inguine profondo in cui convergono,

come da varie parti le percezioni

del vasto senso del suo esser persona,

gli sguardi dei vecchioni che spiano Susanna…

 

Sì, il picciolo per cui si reggeva al ramo

è forse il rimasuglio del suo cordone

ombellicale per cui si ritrasmette

speditamente la sagoma flessuosa

di una femmina sorpresa nel rituale

della sua segregata nudità,

intenta a spalmare creme, dosare lozioni

negli anditi del proprio insieme che più attraggono

l’altra metà del cielo in clavi erotica…

 

Librato nel cielo azzurro del mattino

sta il genitore-albero. Impettito

e austero nella propria corteccia-corazza;

come un feudale cavaliere come

un crociato già assorto nel miraggio

della mèta lontana e contrastata

volge dall’alto lo sguardo compiaciuto

sulla figliuola attempata infine accasata

con ricca dote e corredo prezioso,

al genero sedentario e soddisfatto

del premio fortunoso alla propria pigrizia

appena un sogguardo furtivo e commiserante…

 

Poi, quando, varcato l’uscio del suo boudoir,

gusto la granulosa polpa del frutto

si travasa entro me la percezione

di quanti imperscrutabili percorsi,

nell’angusto cortile del nostro cosmo,

i chimici ingredienti che un Monod

un Mendeleev un Prigogine zelanti

hanno appuntato su lucide tabelle,

coprono, dando forma ad organismi

vegetali o animali, voraci o eduli,

senza che sia soffocata in alcuno di essi

l’estrosa corrispondenza delle parti.

 

(Cori, 14 settembre 2009)

E p i n i c i o

(a Danny Ferrone, per la sua sfida alla FC nel Triathlon…)

 

Wonderful landscape, Danny Ferrone,

questo cortile cosmico entro cui i minimi

chimici ingredienti il vortice spinge ed anima

oltre la piatta tabella di Mendeleev

sinché in solidali organismi non si aggregano!…

Eppure in tale miriade di perfettibili

– tra cui cercheresti invano il Perfetto e l’Unico –

spessola Mente boriosa, ben impancata

sul vertice cervicale, convince i soggetti

a rinnegare l’etica per cui giunsero a vita.

 

Per fare viaggio in paesaggi naturali

consiglia contachilometri testati

per formidables vitesses e che mai andranno in tilt;

convince ad accasar figlie con ricca dote

che altri sperpereranno in bordelli e bische;

boriosi Alfieri incita a ingaggiar guerre

assurde che tuttavia dànno lustro alle armi…

 

Mentre dal Tibet un Lama sollecita: “Tieni

fraterno quotidiano dialogo con tutti i tuoi organi

se vuoi dar giusto senso al tuo sopravvivere!…”

chi innesta ance e pistoni sull’esile canna

del flauto pastorale, chi  escogita musiche

vibranti di più strenue, estenuanti nuances,

azzarda che il prossimo Orfeo potrà trarre Euridice

dal buio gorgo che la tiene ostaggio…

 

Ben più virtuosa inclinazione, dunque,

quella per cui hai addestrato il tuo diaframma

a flettersi per dar spazio al nutrimento

aereo degli alveoli più reconditi

nel complesso vitale di cui hai governo,

Danny Ferrone, unico atleta capace di

stravincere una gara ancor prima di correrla.

Sì, all’ospite occasionale tu offriresti

porzione generosa di un pasto frugale!…

 

E dunque poiché il tuo gesto ben rappresenta

che l’energia con cui il vento gonfia la vela

e incalza l’onda finché non si esalta in spuma,

è un bene impagabile, sì, ma comunque gratuito

e posto a disposizione di chiunque,

formoso ereditiero o rampollo gracile,

dico che, ben appunto trasvolando

lungo secoli di storia furente o annoiata,

questo glorioso Triathlon con cui attraversi

regate insulse di nababbi ereditieri

dovrebbe lodarlo Pindaro con un suo epinicio.

 

“Ma come – dirai – connettendo pretesto e metafora?…”

Così: ammonendo che l’arte deve ordire

non bolse melopee della condizione

ma energici incitamenti a sovvertirla,

sospingerla all’alternativo perfettibile!…

 

(Cori, 14 settembre 2009)