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Come un romeo erto sul valico alpino

Si leva nel cuor della notte, e orina.

Pensa: “La tua impoetica e antiletteraria

mania di temerario verseggiatore

non riuscirà, per caso, a render tema

di un poema anche una simile occasione?…”

 

Così, per provvidenziale consonanza,

pensare ora ad Ea, mesopotamica

deità che, reclusa in profonde acque,

veneravano gli A-su, gli austeri medici

fautori dei fluviali lavacri intesi

come divine offerte per la salute

dei viventi quassù in rischioso approdo…

Acque che nell’inguine si radunano,

acque che dall’inguine si diramano,

dall’inguine glorioso perpetuatore,

sorgente inesauribile e foce del vivere.

 

Rammenta come nei suoi settantacinque anni

ha sempre curato con scrupolo il ricambio

della idrica componente del suo organismo.

Golose ingurgitazioni, appaganti minzioni

in tutto il completo arco delle ore

anagrafiche o astrali, canoniche o ermetiche:

levate infantili in silenzi rutilanti

di stelle, sibilanti adescamenti

di nottole…; scrosci di ragazzesche cianfrusaglie

in stanze di familiari adolescenti

già quasi camerate di una truppa

in caserma, tra oppressioni disparate…;

e poi, durante il malefico exodus, litania

rissosa nel rigore di spazi aperti,

come sfuggendo a occhiute censure

di megere grinzose e inappagabili…

 

Come un romeo erto sul valico alpino

riguarda compiaciuto i piani trascorsi,

si volge fiducioso ai prossimi passi

obbligati. “Il sonno – dice – avete

assomigliato alla morte. La veglia soltanto

per voi è vita. Dunque io quante mai volte

ho nei due sensi varcato il loro confine

entrando, uscendo, e rientrando tra ragnatele

di oniriche apprensioni e seduzioni?

E’ forse per tal mestiere di promeneur

distratto e disincantato, soltanto aggiogato

alle esigenze dei suoi ingredienti minimi

che al complesso corporeo ora svettante

sul putrido consorzio del senso comune

appare immune da fastidio o angoscia

il marchio inevitabile della morte?…”

 

(Domenica 17 agosto 2003)

La tedeschina che mollemente appoggia il viso

Di fronte alla compagna sfrenata walchiria

la tedeschina che mollemente appoggia il viso

incorniciato da biondi capelli

al braccio steso mentre viaggia in piedi

nel treno affollatissimo espone in silenzio

le teutoniche grazie più appetibili

dall’ingegno latino insaziabile e avido.

Ma ti tornano in mente Mignon e Ottilia…

Eppure ti rendi ben conto che intanto, quando

appare in lontananza la sagoma scarna

dell’Ossario granitico, essa riflette:

“Aveva buone ragioni il caro onkel Franz

– lui che non ha da turista corso l’Italia –

di insistere che l’eccidio alle Fosse doveva

inconfutabilmente pareggiare

il conto di quei trentadue militi nostri

vittime in vile agguato della guerriglia!…”

 

Oh, sì, è anche apprezzabile che in agosto

viaggino in treno, in aereo, in auto, e anche a piedi

milioni di giovani imberbi e di ninfe immature

in sportivo o succinto abbigliamento,

con zaini colmi di innocenti cianfrusaglie,

infusi di saltuarie e sconnesse nozioni

di ciò che è stato al tempo in cui essi vagavano,

angelici in incompatibili paradisi,

e che nelle zone mediane degli organismi

ora miscelino ammodo ovuli e sperma,

persino illusi di dare fondamento

a un futuro comune più schietto e coerente

con sciocca indifferenza a quanto ha sconvolto

la quotidiana esistenza di interi popoli

quando in irrespirabile atmosfera,

con torva perseveranza, da balze opposte,

di sentimenti e idee si faceva sconquasso…

 

(Martedì 5 agosto 2003)

Non si valica indenni il confine profondo

Avanza con un suo passo mal studiato

ora frenetico ora incerto ora prudente,

e lentamente effonde sull’asfalto

e tra le ombrose verzure dei giardini,

nell’ora della siesta sazia ed ilare

dei facoltosi, importune lamentele,

stentate querimonie su orzo e miglio.

 

Vorresti che si facesse presto sera,

che il turista africano, scimmiescamente

gustato il menu europeo, si inerpicasse

lungo la palma che svetta imprevedibile

in un angolo buio e ispira idillio

solo al vecchietto reduce dal carcere,

esperto nei più astrusi stratagemmi.

 

Comprendi che la stagione convincente

a serrarsi in ermetiche clausure

giunge sin qui dai quadri di Emil Nolde,

giunge sin qui dai romanzi di Knut Hamsun,

giunge sin qui dai drammi di Anton Cechov,

dopo spediti a Port Moresby o a Brisbane

alcuni tranquillanti telegrammi.

 

E chiedi: “Gli itinerari delle anatre

permarranno immutati per altri secoli

nonostante le guerre micidiali

che Seniori Tiranni imporranno ai popoli

oppure si scomporranno in inerti fili

reggendo l’ultima piuma di un solo superstite?…”

Non si valica indenni il confine profondo!

 

(6 novembre 2002)

 

Aretàs ghe mèn ou minùzei

Inveisce contro il suo pelo caduco

di vegliardo, che ora resiste al soffio

con cui tenta scacciarlo dalla tela

invasa, intanto, dal pelo del suo pennello –

pelo di mite animale, operoso e tenace –

con tinte sostanziose, con tratti veementi.

 

Ma poi, quasi assolvendo il capriccio innocuo

di un suddito, di un servo, di un infante,

si compiace pensando che il dispetto

vale come conferma che è spartita

in omogenea densità, nel corpo,

quella tenacia per cui è capace ancora

di imprendere qualcosa e indicarne il senso

il despota mentale che questo annota:

 

“Aretàs ghe mèn ou minùzei

brotòn àma sòmati fèngos,

allà Mousà nin trèfei!”… (1)

 

(9 luglio 1999)

 

(1) “…ma la luce della virtù non diminuisce con la forza del corpo sela Musalo nutre…” Bacchilide, Epinicio III, 7)

 

Gli alibi provvisori o le urgenti difese

Dove Fjodor descrive Serov delinea

le drammatiche volte dell’esistere.

E non dovremmo, credo, discettare

con tanta bonomia – segnando i punti

in cui la accorta dialettica non coinvolge

la nostra stessa mano ad armarsi di scure,

il nostro stesso cervello a soppesare

gli alibi provvisori o le urgenti difese –

del delitto gratuito e comunque inspiegabile

di Raskolnikov, emblema e reperto di un mondo.

Dove Fjodor descrive Serov delinea

le drammatiche volte dell’esistere.

 

(16 marzo 1998)

 

Straniata pastorale, se i due estremi

All’alba, appena desto, decido che può

intitolarsi Anfìsbena lo scabro grafema

tracciato ieri; tracciato, intendo, quando,

uscito dal rischioso malanno, di nuovo

palpavo il muro per scovarvi aditi

al reale increscioso o promettente;

e farlo magari valere come metafora

di questa nostra storia personale e generica

distesa, sì, ma protesa incoerentemente

tra nostalgie di Eden, di auree età,

ancestrali memorie, infantili idilli

e orgogliosi propositi, temerarie invenzioni,

manie futurologiche, esibizioni

di ciarlatane bravure nella diaspora.

 

Straniata Pastorale, se i due estremi

osserva un villano accosciato, orecchia asinina,

grinta di un Mefistofele mortificato

mentre un Fourier ben librato, papiglionaceo,

solca un nonpertanto azzurro cielo…

Anfìsbena, immagine del corso immortale,

del nostro orgoglioso rifiuto di genealogie,

del nostro idiota annaspare etimologie!..

 

(Cori, 27 febbraio 1998)

 

Improperium per Duena Elvira

Ah, Donna Elvira, Duena Elvira, occhio

casto, imene con fine arte effratto

‘biofisiopsicologica’!… avessi tu

letto con buon giudizio Petronio e Aretino,

potuto conoscere un Fourier e un Lawrence, o

nutrito un qualsiasi intuito dei loro argomenti

rimestando in soffitta in armadi decrepiti,

in tarlate barocche cassapanche

palpato il gusto degli assensi fertili

nella meravigliosa sopravvivenza

di insetti a capo di nostre toilettes e igieni,

quanti melodrammatici andirivieni

avresti risparmiato ai tre poveri generi

schizzati dalla mano infervorata

di questo nostro Dio Parsimonioso

sul foglio appena apprettato della Natura!…

 

(Cori, 25 febbraio 1998)

 

Dico: il trascorso storico non preme e frattura?

All’alba (la prima luce sogguarda appena

dalle sconnesse maglie dell’imposta)

escogito un tiro burlesco con cui impallare

con l’autodidattico mio hablar espanol

quel frenetico transfert – e poi imprevisto! –

che istiga Maria Teresa, ora, a stanziarsi

per anni, e magari per sempre, en ciudades ibericas.

Poi, quando fremente si staglia il cinguettio

dei pennuti sfreccianti tra gli umidi olivi,

mentalmente sorrido compiaciuto

della finale battuta con cui svelerei,

tra superflue o improbabili agnizioni,

chiudendo il telepatico colloquio,

il trucco del mio affettuoso dispiacere.

 

Sì, Adonis, “la scrittura, in arabo, insegna

che non è un luogo la patria e non si situa”

in nessuna casella del nostro atlante,

“essa insegna in che modo si può dire:

il mio paese è il mio corpo”.

Ma ecco, io

avverto quale spasmodica prensilità

scatena, in tutti i luoghi in cui la portano

gli individui e le orde, la parola,

come essa afferra e avvinghia paesaggio e humus,

si innesta nella pianta e nell’animale,

patina l’atmosfera e la montagna

nel Mexico di Hernan Cortez e di Pancho Villa

e fin nelle più remote Mindanao…

 

Penso alle saponate mediterranee,

atlantiche, pacifiche, di una

hispanidad già cantabrica e latina,

agli essenziali crismi ovunque flessi

nel tempo per proteggere gesto e individuo,

marchiare di rosso orgoglio i loro perimetri.

Penso a patrie violente ed aggressive

che le encicliche islamiche e cristiane

camuffano con ireneici dettati.

Dico: il trascorso storico non preme e frattura?

Non hanno forse i moriscos e i marrani

una progenie sparsa in lande boreali?

Non vanno per strade nebbiose, a Londra e a Chicago,

sciiti maghrebini coperti di lana?

(Cori, 20 aprile 1997)

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Dovete studiare a fondo, del tiranno,

Dovete studiare a fondo, del tiranno,

l’intera costituzione, sollevare

le placche della sua cote ferrigna,

annusare nella rosea mucillagine

la fetida lutulenza dei suoi visceri

nutriti delle migliori derrate e bevande,

connettere con l’intera fisionomia

il corteggio servile e compassato

dei suoi ministeriales, cancellieri,

notai, scribi, cattedratici puntuali

nel ripianare in verbis i suoi conati

prometeici, le sue sigle galvanizzanti;

vagliare come neanche il possente urlo

postumo del mozartiano Requiem possa

modificare un tratto del suo arbitrio,

rendere per un attimo flessibile

il decreto coerente in tutti i nodi,

flettere la proterva pretensione

dei melensi poetastri che lo assistono

e che dalle finestre della sua reggia

espongono gli emblemi ed i messaggi

che invogliano la massa resa atona

a disporsi compatta sull’ultima rampa

del millenario declino di antiche prestanze!…

 

(14 marzo 1997)