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Doto il mio personaggio del temerario assunto

Doto il mio personaggio del temerario assunto

di Friedrich Leopold von Hardenberg,

portentoso Novalis, però imponendogli

di tenere ben stretto sotto il braccio

il turgido volume in cui Lucien Lévy-Bruhl,

adunati gli arditi esploratori

dell’anima primitiva, i Dorsey, gli Hetherwick,

gli Spencer, i Gillen, i Gatschet, i Codrington,

gli Schmidth, i Mathews,  provvede alla esazione

dei tributi dovuti per le fertili

residenze trascorse in tropicali,

australi, polari siti, disfioramenti

di papille epidermiche in climi inconsueti

di natura e di logica, polarità opposte

di osservanti e osservati, di apprendenti e di appresi.

 

E allora lo udrai  anch’esso declamare:

“In quanto io credo che Sophie sia sempre

intorno a me e che possa apparirmi,

e agisco conformemente a tale fede,

essa è difatti intorno a me, per certo

infine mi apparirà, e proprio dove

meno l’aspetto. In me, può darsi, come

anima mia, e proprio così veramente

fuori di me; infatti ciò che è

veramente esteriore non può che

agire mediante me, in me, su me

– e in un rapporto delizioso”…(1)

 

Orripilano i Mostri Letterari

e Poetici di questa nostra età,

tachìmani lumache, claudicanti tigri,

miopi aquile, iene dispeptiche, avvoltoi

imblesiti; fanatici cacciatori di un perfectum

impassibile immerso in un pulviscolo

di scriteriati, onerosi perficienda:

“Così, dunque, – inquisiscono – pretendi

colmare il Vuoto di progettualità e riflessione

per cui molto abbiamo noi dovuto osare

tanto accanendoci, in solidale fervore,

noi sparuta pattuglia, contro legioni

di esaltati campioni dell’Anima bella,

anche esponendoci, dopo la màke astrusa,

a graffi e sputi di grinzose vivandiere?…

Osserva con quale impeto già cavalcano

i nostri metallici ponteggi la tua ridicola

barricata, come il nostro ingegnoso,

intrepido, ben più legittimamente romantico

Futuribile soffoca il tuo assurdo invito

agli ultimi indecisi di Megalopoli

perché disertino dalla gara che nella Storia

l’Uomo da troppo tempo ha ingaggiato col dio!…”

 

Ma poi, nel loro grottesco fraintendimento

di cosa e come e quanto il tempo che scorre

eraclitianamente deforma o coimplica,

di cosa la memoria clanica, anche

riluttando, inconsapevolmente ingloba,

scorto l’inizio del ben più erto sentiero

nel quale forse balugini un indizio

che ancora all’Uomo possa un domani dischiudersi

– provvidenziale tonico della mia

energia di vegliardo irriducibile

ai vezzi delle mode salottiere o accademiche -,

in esso avanzo con giovanile foga.

E, così sporto sulla quota nobile

del talento, del naturale sostentamento

che nel ben mantenuto mio complesso

fisiologico i balsami boschivi

infondono, mi attento in sarcasmi messianici:

 

“Tenete bene a mente che l’aforisma

è unica espressione e calza un’Unica!…

– declamo con ragazzesca improntitudine –

Sbirciate ben indietro nella memoria

del clan – se questo ancora vi resta possibile… -!

Accertatevi, compulsando abbecedari

e tecnici manuali, cronache, elzeviri,

che abiti hanno indossato nell’arco di secoli

le tante Sophie altre da quelle che

sgambettano a voi giunte incolonnate

in fumide autobahnne autoroutes autostrade

quando la torrida estate delle vacanze

nel Villaggio Globale fonde i roventi

asfalti e lascia allora levitare soltanto

equorei miraggi, impalpabili palmeti

dinanzi agli occhi di Annoiate e Fatue

– anonimo Gelangweilt und Leer -,

che scorrono sbadigliando sull’orlo dei

superstiti panorami e intanto ritoccano

nel loro miniaturizzato display rococò

i trucchi di quella cosmetica futuribile

di cui fanno unico orgoglio, nell’Era Finale,

lungo i crinali del landschaft monocromo

e altre poi gestiranno con orgoglio

specioso nell’Ultima Era dell’Umano Creato…

 

Quanto queste Sophie ‘altre’, trascorrendo

per la terrestre quotidiana lima delle

medianiche o native facoltà, fanno

mostra spavalda a inebetiti spettatori

di spalle e natiche ben rosolate dal sole,

impiastricciate da odorosi lenimenti?,

quanto dei loro seni hanno posto in mostra

parziale e maliziosa a sguardi di ingordi?,

con che sorrisi all’ospite accaldato

o infreddolito avranno pòrto la bevanda

ristoratrice estratta con piratesca

arte dai frutti marci della stagione?

E, anche nelle ordinarie contingenze,

come hanno modellato il loro discorso?

Quale profumo avrà intriso la parola

che un tempo sgorgava da bocche più pudiche?

In che mansioni – e per parabole più estese –

avranno impegnato le loro energie

mentali e fisiche tra ciascuna alba e tramonto?,
in quali sogni avranno scovato le chiavi

con cui ben disserrare poi gli ermetismi

di altri esistenti spasmodici nella veglia?…”

 

In cima all’arduo sentiero, quando neanche

avverto più il brusio della quisquilia

valligiana, mi viene incontro il venerando

fantasma di una Penelope Fitzgerald

sorniona e riconoscente; nella mano

il suo incantevole libro ‘Il fiore azzurro’.

E mentre ben percepisco allora come

in Antverpen si mescolasse ogni mattino

nella cloaca il colore che raschiava

dalla sua tavolozza Pier Paolo Rubens

con l’urina che avrebbe fra poco minto

Elena Forment diciottenne uscendo

ben appagata dal rito notturno del sesso,

il corpo stretto in morbida pelliccia,

mi rendo esatto conto che non convince

perché appreso in un libro del mio scaffale

questo giudizio attribuito a un certo

Friedrich von Hardenberg o a un certo Novalis,

ma in quanto espresso con ben viva voce

– tra ben rifiniti dettagli del corso vitale

di lui, della casa, del clan, della razza, del secolo… -,

dal suo ben più plausibile Personaggio,

quello di cui Penelope appunto ha reso

con tanta meticolosa cura l’essenza

vitale ed esistenziale, il senso e il gesto.

 

“La miniera non viola alcun segreto

della Natura; anzi è opera industriosa

mirata a rendere liberi i figli della

Madre Terra, la vita vecchia come il mondo

che il civile pattume  ha intrappolato!

Da quanto tempo attende sottoterra –

l’orecchio teso a cogliere i primi rimbombi

del piccone brandito dal minatore –

il Re dei Metalli? E che cosa sentirà

quando infine potrà sporgere il viso

alla luce del giorno, per la prima volta?…”

 

“Ah, – la provoco – amica, in quel tuo ironico

circostanziare minuzzaglie quotidiane

come ben penetriamo il vissuto degli altri!,

come ben annusiamo il turgore vitale

tra i sentori essudati di febbri malefiche!,

come il nostro trasporci fa vibrare

in queste nostre membra infreddolite

il senso di una musica appena sgorgata

da gole spericolate nel Coro e in ‘a solo’!…

Ma se appunto così soltanto ci è dato

di apprendere della vita degli altri il senso,

scrolliamoci di dosso il trattato, eleggiamo

il romanzo e il poema a serramento

dell’ermetico e a unica chiave che lo apre!

Se è appena la loro musica a far comprensibile

il discorso, aboliamo il concerto, sussurriamo

all’orecchio di solo qualche complice

– e in posa, in disposizione, in clima opportuni…-

la trama inalterata, trasformiamo

in termopolio, in piscina, in palestra, in naumachia

l’Auditorium ormai inutile ed impratico,

convitiamo al commercio con gli Eletti

i soli disponibili ad elezione!…”

 

Così, il tuo libro, Penelope, divenga il mediante

tra quelle infatuazioni e fantasticaggini

che il me giovanile, impegnato allora

in una scomposta lettura di “Inni alla notte”,

in malinconiche inchieste per anni irretirono

e questa che ora scorgo adattabilità

di esse al ‘corto poema’ che insieme potremmo

siglare chiudendo il tuo libro: “Il coraggio è più (2)

della sopportazione, è la forza di crearti

la tua vita nonostante tutto quello che

Dio o l’uomo possono anche infliggerti,

così che ogni giorno e ogni notte

siano come tu li immagini. Il coraggio

ci rende sognatori, ci rende poeti”.

 

Sì, ora che, infine, smagato dalla

spericolata scepsi fourieriana,

il me senile incontra la tua resa

arguta ed humourosa di quel ‘credo’

librato in irripetibile esperienza,

ottima delle sorelle, anch’io la compongo,

giuocando sulla tastiera bachiana il ‘Capriccio

sulla partenza del fratello dilettissimo’,

in ardue trasposizioni neumatiche e grafiche,

la mia lettura del genio irriducibile

che lascia traccia indelebile in distese di effimero!

Chiudo il tuo libro, sicuro che lo scettico

il più incoercibile del verbo di quel Friedrich

– o trasognato, ma pur, nelle strettoie

del sito, dell’età, del rango, del clan,

sperimentato ed esperiente Friedrich!… –

non potrà non vederlo ora balzare

vivido e ben inquietante dalla tua pagina,

infine, un ben più affidabile, ma anche ‘tuo’ Novalis.”

(12 giugno 2006)

 

(1) (Novalis – Frammenti; n.23)

(2) (Penelope Fitzgerald – “Il fiore azzurro”, pag.167)

Chi era il tuo trisavolo più remoto, Bela?

“Riporto le mie dita sulle note

delle sei Danze in ritmo bulgaro, epilogo

del tuo musicale ‘Mikrokosmos’,

avviso – e già testimone… – di eventi tragici

in questo modesto atomo mal gestito,

metafora quotidiana nella tua diaspora

dal continente vecchio e ormai avariato

al continente nuovo e già corrotto.

 

E come mi consolava, negli anni in cui

mi feriva il conformismo accomodante

della gente comune eppur pretenziosa,

questo tuo barbarismo, convincendomi

di come convenisse guardarsi indietro

mentre si muove pur innanzi il passo

in dirupi montani, in tempeste di vento,

di come sia affidabile il regime degli inizi,

inesauribilmente fertile il primordiale!

 

E dunque con immutati termini in me insorge

lo spavaldo rinfaccio all’età e ai suoi modi,

scurrili o cervellotici, di impegnare

senso e ragione nel tempo dato al vivere,

il suo tentare la natura in giostre

meschine e inconcludenti, imporle varianti,

imporle fiscali scadenze per gusti melensi,

rateizzate custodie delle reliquie

di trapassati in illudenti ideologie,

stivare santi e assassini in forzata combutta…

 

E in questo mondo in cui suona come

stentorea epica la ritmica sghimbescia

dei tuoi quattro due tre, tre tre due ottavi,

vessilli di ebbrezza rustica, di feroce alterezza

opposta al ringhio della megalopoli,

ricordare il teutonico fantaccino

che a Marzabotto sventrò la madre pregna

con un preciso colpo di baionetta

– che ne pensa, se vive?, che ne pensano

i suoi figli e nipoti, di quel suo atto?… –

e sulla sponda di tanto sangue sparso

esporre l’ultima chance dell’utopia,

satanica inquisizione o naivetè idiota,

margine estremo, coriandolo o nastrino

pendente dal balzachiano monumento

di questa nostra Storia bagascia testarda

deliberata in Eden e poi volta ad imum:

“Chi era il tuo trisavolo più remoto, Bela?…

Come ha potuto darsi che nel flusso

del sangue quel che a monte di esso era

ferocia di unno guerriero, maestria

di cavallaro, di buttero della pustza,

si flettesse alla foce ad auscultare

fruscii di chiome arboree, frinii di grilli,

palpiti di elitre, crepiti sommessi?…”

 

(Venerdì 10 marzo 2006)

Ah, come vitale e tenace mediterraneo mirto

Ah, come vitale e tenace mediterraneo mirto

lungo la balza pietrosa che sale a Norma

ti mostri tendendo dal tenero nuovo virgulto

verde, appena rinato, la branca affumicata

arsa per giuoco dal vandalo piromane

quasi arto di un mio simile caritatevole

a me wanderer cosmopolita e apolide!

Anche avvertendo: – Eppure, a dispetto di tutto,

qui mi ritroverai svettante e porgendo frutto,

esalando profumi inconfondibili, effondendo succo

ristoratore e salubre, la prossima primavera,

se il corso delle stelle vorrà concederne ancora

di ben opportunamente ordinate stagioni!…-

 

“E così sia di tutta  la grande incompresa poesia, –

ho replicato, sostenendomi in rischio e tensione –

di tutta la  grande e incompresa poesia,

di tanta  misconosciuta dottrina e arte,

quando non più risuonerà la mia voce prosastica,

quella che ora recita disappunto legittimo

nel tempo che mi considera e che sento estraneo;

quando magari superstiti frammenti

tocchi a un sopravvissuto in più fertile atmosfera

leggerne come è accaduto a me di leggerne

di un certo Pindaro, di un certo Stesicoro…

Si, dopo la irreprensibile verifica della mia profezia,

elpìdas exopìso barèias profainomène…” (1)

 

(Sabato 12 novembre 2005)

(1) Stesicoro – P. Lille 76

Se la sostanza dell’uomo permane inclemente

O Rustico di Filippo, linguacciuto

e spietato nel delineare il tratto

dei volti, colorirli, rimboccarci

quello che dal precordio ci rigurgita!

 

Quanti potrei ripeterne di identici

ai tuoi clienti nel quotidiano andare

come ospite e profugo per vie

di questo ostile paese in cui sopravvivo!

 

Arcigni, bernoccoluti, incipigliati,

catarrosi, insolenti, svillaneggianti

senza motivo, sordastri, puteolenti

di alcol, di tabacco, di spezie vermifughe,

 

impastano il dialetto sorbito col latte

materno in stravaganti elucubrazioni

istantanee, ma con stentorea prosopopea

farfugliano: “Che alto è il carato della mia razza!…”

 

Sprezzanti con l’immigrato e il transitante,

li espongo nello specchio di questi versi.

Perché stupidamente scimmiottare

la maniera di un Gadda ridotto nevrotico,

 

o quella di un Sanguineti esibizionista

instancabile di frizzi ed esperimenti

se la sostanza dell’uomo permane inclemente

e non vale poesia a modificarla

 

sicché il Tecnocrate alticcio e burbanzoso

assurto con scaltro plagio demagogico

può sfrangere, disossare, spartire e spolpare

che preda!, la nostra comune Madre Terra?!…

 

(Velletri, 5 ottobre 2005)

 

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Profumano di lavanda le colline

Profumano di lavanda le colline

nel caldo sole che infine le accarezza

mentre in lontani continenti ancora

infierisce uragano, terremoto,

franano i poveri aneliti di miglior vita

consentiti dai despoti a miseri popoli.

Salgo, traendo a mano la bicicletta

– e faticando, e mi infradicio i piedi… -,

la mulattiera che sale a Sermoneta;

così, per capricciosa determinazione

di imporre aroma angustioso alla delizia

della vacanza tanto a lungo impedita…

 

E poi, sostando in piazza, a mezzodì,

ascolto un mio personaggio che così scuote

un altro fanatizzato da dinamismo

neanche più muscolare ma meccanico:

“Tu corri verso spazi oltre la storia.

Ma sai al fanciullo che farfuglia appena

la parola con cui tenti istruirlo

alla tua civiltà industrializzata

come riduci a ogni istante la memoria

di cose e di loro nomi che praticava

in quell’altrove, in quel diverso esistere

da cui l’ha tratto il connubio parentale?…”

 

Sotto l’insegna il giovane barista

paesano espone con grossolano tratto

su bianco straccio l’intricante invito

a degustare lì, oggi, il suo “assenzio

– rimarca con sorniona petulanza –

bevanda dei poeti maledetti…”

Volgo al ritorno, e penso: “Hai mai sognato

di fare tappa in una Aden o in una Gibuti?…”

E appresso si risveglia il mio Senòfane: “…all’

eikèi màla toùto nomìzetai, oudè dìkaion

prokrìnein ròmen tès agazès sofìen!…”; (1)

e resto ancora convinto che non ripaga

forzare maldestramente il sano equilibrio!…”

 

(Sermoneta, 11 ottobre 2005)

 

(1)Senofane: “…ma si giudica assai sommariamente, e non è giusto preferire la forza alla saggezza”

Immutato orizzonte della gente mediterranea / O Sicilia, isola e altezza!

28 settembre 2005. Rinvenuti due componimenti con datazione 1963, non inclusi nelle precedenti mie raccolte a stampa, li trascrivo qui.

 

Immutato orizzonte della gente mediterranea

 

Posso scrivere poesia in pieno mezzogiorno.

Posso fornire consigli mentre ascoltate una fine predica.

Posso sorridere irriverente nel corso di una conferenza.

 

‘Akrìdi tà katàruran aedòni kài druokòita

Tèttighi xunòn tùmbon èteuxe Murò,

parzènion stàxasa kòra dràku…’

dice A’nite.

E ora sto qui a chiedermi cosa è stato della bimba Mirò

dal nome così suggestivo che anche evoca

l’incanto improvviso di huertas valencianas.

 

Mi chiedo cosa è stato della bimba Mirò

poiché cala la sera e, ricordando i fatti

dell’ultimo tempo della mia vicinanza a mia madre,

ne riapprendo ancora il sapore emotivo,

provo gioia insperata, ma senza rimpianto.

 

Ora so quale più lunga e difficile via essa ha imposto

dall’ombra della sua supponenza gelosa

al passo della mia vita e dell’opera:

“Che cosa pretendi di essere e divenire? –

protestava; e sbarrava il proprio deluso egotismo

con serrature e con chiavi, distogliendo

dalla mia vista lo sguardo sdegnato.

 

“Al mediocre – rispondevo, e con quale ardimento!…-

che cosa per lui comprensibile potrai mai controbattere?…”

Io soltanto potevo scrutare il campo della disgrazia

fino all’orizzonte della sua atona crudeltà.

Per questo ora sto qui a chiedermi

cosa sarà stato poi della bimba Mirò, quella che

‘‘akrìdi tà katàruran aedòni kài druokòita

tèttighi xunòn tùmbon èteuxe”…

Sarà poi divenuta un’etera?, oppure una madre comprensiva

di tutte le irragionevoli ambizioni dei figli?

Avrà innocuamente allettato dei mediocri?

Non importa; la risposta, intanto, è divenuta superflua

poiché se è vero che

                                               ‘dissà gàr autàs

pàighni’o dispeizès òket Aìdas…’

Ade infine ha portato via anche lei

e le vigilatrici maligne hanno avuto successo

per quanto almeno potevano…

Le Mòire!, le Mòire!

Le Madri!, le Madri!

 

Madri che possono ricattare da stalli privilegiati!

Madri che possono acquistare maestria delle armi più sottili!

Madri che possono rinnegare il sesso generatore!

Le Madri!, le Madri!

Le Mòire!, le Mòire!

 

Con che cuore, dunque, oggi me ne sto qui,

trascorse le esequie dell’usignuolo e della cicala;

sopitosi il pianto di tutti i sopravvissuti,

cavalcate le onde che tanti hanno sommerso

con sentimentalismi, vigliacchi cedimenti;

e fiducia reciproca tento ispirare ai sopravvissuti

man mano scovati e adunati, per sospingerli

tra ardimento dell’esordio e panico dell’epilogo,

a specchiarsi nell’abisso dei mari

per comprendere l’abisso dei cuori,

immutato orizzonte della gente mediterranea!…

(Roma, sabato 2 novembre 1963)

 

O Sicilia, isola e altezza!

 

O Sicilia, isola e altezza!

Trìskelis e tetràkelis

della tua storia e della mia coscienza,

dei Siculi e dei Sicani,

degli Elleni e dei Fenici,

dei Greci disperati e dei Bizantini alteri,

dei Romani, degli Arabi, dei Normanni!

 

Ti sentivo narrata nei proverbi,

nei cibi, nella foggia degli abiti,

nel modo di sorridere e di imprecare

degli uomini e delle donne, nel taglio ròso

dei gradini, nella forma delle anfore,

nei chiocciolii delle fonti, nelle forme dei coltelli,

nella rupe fiorita dai desideri

che a un tratto scorgevo profilarsi

in fondo alle vie cittadine animate e dentate.

 

Che fortuna la poesia che

raddensa le immagini e le limita!

Dono divino di lieviti e tempeste

per sagge mescolanze di miracolose antichità!

E senza poesia come potrei essere capace,

io, di vegliare un morto o di educare un vivo?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Kài pokàtoi dòso trìpodos kùtos…(1)

Alcmane promette una pentola tripode;

e poi quando chiama le alcionesse a scortarlo

nell’ultimo viaggio sul mare spumeggiante

come tenero il suo rituale della morte!…

E risento mio padre ripetere, la sera:

“Tra i preti sparisce il gabbano!…

Dalle ruote si sente, che è carretto!…”

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Crescono cuspidi normanne e minareti arabi

sulla tua pelle glabra, misteriosa

Sicilia! Persefone strepita all’Ade.

Demetra con ombra di spiga corre i campi.

E noi divisi in città straniere sogniamo,

sul grembo della madre casuale ci scaldiamo

dopo navigazioni fantastiche.

 

Scendono le cordonate serali folle di pescatori,

roseo fiore del destino farfalleggia le pietre,

i nostri canestri crocchiano come sedie di oziosi,

le farmacie hanno frescure di privilegio,

annusando il dio naturale amiamo e odiamo…

 

Chi vorrà consegnare qui il pedaggio del lungo viaggio

ospite sia se saprà riferire di lirici grandi

un cui verso sommuova come ondata mediterranea

i fondi della nostra memoria

non di fanciullo, ma clanica!

 

“…suonavano flauti, gli eletti;

qualcuno aveva approntato

giardini ben convenevoli alle lussurie;

i volteggi e i sorrisi delle Ninfe

offrivano spettacolo agli dèi

dei contrastati amori degli umani…”

(Roma, venerdì 15 marzo 1963)

 

(1) Alcmane – “… ti darò una grande gavetta”

“Buon viaggio!… – urlo al Fourier papiglionaceo…

“Buon viaggio!…- urlo al Fourier papiglionaceo

che aleggia ora glorioso oltre la nube

che su noi piove rabbiosa ecologia,

disperante tregenda di umori viscidi

in tropicali innaturali prestiti –

Scorgi nei fogli di ipocrite gazzette

il seme e il frutto di balorde imprese

che ci snaturano?…Cuori ed epidermidi

si raffreddano, il pianeta si arroventa.

Pure, oltreoceano, un despota rifiuta

di imporre freni al tripudio tecnologico

e propone ai suoi schiavi di mietere gloria

guerresca perpetrando feroci ecatombi

in fumosi orizzonti remoti ed esotici.

Nostra estrema risorsa, di noi ricordati!…

Quaggiù c’è ancora penuria di concubine

floride, perspicaci, ben edotte

dalle pagine auree del tuo Trattato;

e le consorti ex lege discutono troppo

il prezzo per cui si rendono disponibili

al tenero consolante giuoco del sesso

in cui eccelleva nel Turbine la tua Fàkma.

Rammentati di noi, toccando il suolo

dell’altro Eden, nella prossima creazione,

quella a cui, tu assicuri, dà già mano,

insonne nella tua estrosa cosmogonia,

il nostro Demiurgo bonario e soccorrevole

ben reso esperto dal passato errore:

quel cadeau scriteriato

porto alla Coppia in fanciullesco esordio…”

(18 settembre 2005)

Pioggia settembrina dopo estenuante arsura.

Pioggia settembrina dopo estenuante arsura.

E ora nel giardino il grande alloro profuma

come una imponente cattedrale pugliese o cantabrica

quando manipoli di sacrestani spalancano

i bronzei portali sotto marmoree sfingi,

le campane diffondono rintocchi soffici

come di risacca oceanica in cale sicure.

 

(1 settembre 2005)

 

Sogno degli uomini una città ben verde

22 settembre 2005. Recuperato da un deposito di inediti il componimento che segue.

 

Sogno degli uomini una città ben verde

 

Il secolare pino, la colossale magnolia

che svettano nel sole di maggio limpido

dai nostri cortili umidicci, che protendono

contro il nembo invernale dai nostri viali

pretenziosi la fiera cervice, dovremmo

davvero sogguardarli con umile sguardo

dal groppo del piede calloso al rameggio minuto.

 

Le loro membra prigioniere grattano

i muri esterni del civile carcere

mentre inzeppiamo stomaci e cervelli,

noi guadagnati ai ritmi pervicaci

di alcuni corollari con cinica enfasi;

i loro sguardi si allungano e protendono

verso spiagge di oceani di peso immenso.

 

Sono giganti capaci di confidenza;

nulla dei nostri romanzi temono o soffrono;

però sul podio lussuoso del despota clanico

le loro foglie volteggiano e cabrano

come le squame della mia epidermide

sul traffico angustioso del formicaio

pedonale, dell’ingorgo motoristico.

 

Sogno degli uomini una città ben verde,

con luoghi di sosta e silenzio per gli affannati,

dispense di cibo sano e di balsami teneri.

Però l’architetto geniale non sa collaudarla;

e già le generazioni nuove dileggiano,

mentre egli contratta spietate parcelle,

la stanza in cui si esporrebbe in luce migliore.

 

(4 maggio 1978)