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Preludio lacrimevole alla truculenta epica
del suo malaugurato primo coniugio:
Luglio del millenovecentocinquantanove:
“…Trieste come una nave inaffondabile,
– ma:
…questa città per esempio di tante…–
Trieste – dico – come una nave inaffondabile
giunta da luoghi e tempi assai lontani
costretta dai marosi nella rada;
azzurro cielo, colline verdi e cotte,
mare di rame, polvere di argento,
folle operose in casa e per le strade;
salgono le maree, coprono il molo,
e le montagne sullo stesso asse
seguono l’albatro in cerchianti echi
fino a luci lontane, nidi tiepidi
nel capriccio dell’ala imprevedibili…”
Vicolo delle Rose; il colmo dell’erta strada
che da Scòrcola sale ai colli, e di là,
tra assolate vigne e brune pezze
di cupi castagneti, dà a Opicina,
alla frontiera balcanica…
L’ Anziano
Magistrato Asburgico – poi Italiano –
che una muliebre zàcola ha reso muto
e taciturno per diuturna ascesi, còlto
mentre in isterico pianto esplode la nevrosi
dell’unica figlia, nubile e attempata –
“Io, sì, – strepita singultando – te ne dissi!… Ma tu…”;
lui, con il tono di un Demòdoco ormai da tempo
rassegnato al mentale discorso, alla pantomima
di flessuose fantàsime anche più adatte
a raffrenare le domestiche vestali,
spalancare le braccia, e consentire:
“Ebbene, chiamami dunque anche tu padre!…”
Ah, come di colpo, allora, gli tornò in mente
il destro incipit del Ligure Cultor di licheni!:
“Padre, quand’anche tu non fossi il mio!…–
e non era il suo; non lo era, no!… Ma da allora
come e quanto cercò lo divenisse!
E come da allora, compunto, affettuosamente
gli tenne testa nell’intrapreso dialogo
in cui lasciavano espandere entrambi la loro
da troppo tempo costretta umbratilità!
L’uno quella tua traversia balcanica del sedici,
poi il suo rasserenante rifugio tra i lirici greci,
cerebrale koinè di loro razze e sintagmi
sgorgati in tane distanti e con opposte stìgmate;
e quell’identico in loro culto istintuale
della zolla, da vangare inseminare accudire
fino a che dia poi gemma, fiore, frutto!…
Ha, sì, giusto diritto egemonico, la Madre,
su vita, iniziali pensamenti della prole,
poiché essa sopporta il carico e lo conclude
con spasimo e rischiando…; ma il Padre che
più spesso esce per sempre dalla penombra
della casa fondata con felpato gesto
e poi lasciata come saldo patrimonio
di chi volesse occuparla in un domani
magari ancora forse possibile e non solo precario,
poi, quando la cicala assordi, nel caldo estivo,
il Maschio mèmore, anch’esso reso taciturno
da traumi, sospetti, rigurgiti di Osteoporosiche
Vestali, quale ermetica stanza si fa nel cuore
dell’altro maschio in ben più stoico declino!…
“Padre, quand’anche tu non fossi il mio!…
Ah, sì, dunque, Lemuel, sii tu, almeno,
qualche poco indulgente con il tuo Jonathan!…
Ricorda: Luca, primo, diciassette: “Ut
convertat corda patrum in filios, et
incredulos ad prudentiam iustorum.”
(Cori, ottobre 2012)
“Ho volto in suoni – che
mi basterebbe tu sola riconoscessi
ben congruenti con quel che una volta avvertisti,
trepidando come una madre a cui un severo giudice
abbia sottratto la figlia appena concluso
l’allattamento accompagnando una delle
tue sumpàiktriai all’altare di Afrodite… -;
quell’organico complesso che,
pur reso quasi nudo superstite dal rodio del tempo
e dalla furia assassina delle orde barbare,
transitate per secoli di storia,
ho scorto troneggiare come erma spavalda,
nel tuo, nel tuo “Imeneo”, Saffo.
Nitore di marmo pario del tuo lirismo castigato
e, anche, un tantino ironico; nitore
che abbacina in questa disperata stagione del Genere,
nitore che già abbacinava
– eppure altrimenti e ben più utilmente…-
me già giovinetto, insofferente nella
asciutta didascalica della scuola,
dei maestri insinceri, dei compagni
destinati a carriere di borghesi smemorandi…
L’ho volto in suoni, io, in questo mio tempo
il tuo Imeneo, Saffo, io, in questo mio tempo
proteso testardamente e avaramente
verso l’ammasso informe
di assai impropabili futuri,
in questo mio tempo
dimentico delle proprie radici ancestrali e cosmiche.
L’ho volto in suoni, in questo mio tempo, io,
costretto a dire del mio trasporre Saffo in suoni,
con persone che più non hanno notizia di una Saffo…,
io giunto al tratto estremo di un mestiere
tenuto per decenni in sorvegliata misura
di emozioni e dottrina, e fatto infine
capace di ravvisare come levita
nella trama dialettica l’estro poetico,
come sul materiale supporto la figura
guarnita di icastica enfasi dal pittore,
mentre interpreta il fatto addita l’idea,
e anche nel compassato colloquio civile
inconsciamente travasiamo quanto
suscita nell’animo nostro l’esperienza
di quello che altri crearono al colmo di un estro
che un Dèmone sempre rende tremendo e incoercibile…”
Senti la truppa dei ritardatari?
Qualcuno che da lontano avverte,
intanto altri frustando le torpide giumente:
“Stiamo, sì, stiamo per giungere, stiamo!…
Che vuoi, sempre, si sa, nella comitiva
una o due squinternate si trovano
ancora affannate nella cerca del pettine oppure
dello spillone prezioso da esibire; e proprio
mentre le più sbrigative e assennate già
hanno occupato il posto più comodo sul carro,
e smaniano… Ah, come vorremmo
già esser giunti, noi, già esser presi
nel fervore dell’attesa, e anche noi intesi
a spronare l’invelenito carpentiere:
”Più sù quel benedetto architrave, tràilo!…
Deve passarci sotto lo sposo, sai, uno che
è più grande di un uomo grande, è uno che
pretende somigliare ad Ares! (e chissà in quale
progetto di maschilistica schiavitù
ha già inserito il nome della meschina che
intanto freme in libidinosa attesa del rito, lei,
appena ieri sgusciata fuori dal tuo partènio, Saffo!…)
Ah, sì, il musicale gesto è mio, Saffo,
e se bene si adatta al persuadente
tuo discorso come ingegnosa impresa
questo è perché si transustanzia il sentito
sprizzato dalla vitale materia cosmica
in altri possibili media e in forma scorre
nella vena alessandrina di un altro poeta oggi!…”
(Cori, 16 agosto 2012)
Venerdì 25 maggio 2012
Rinvenuti tra inediti di vari decenni fa i due componimenti connessi a uno stesso momento delle mie esperienze teoretiche, li ho trascritti qui di seguito, già ruminando mentalmente come ridurre immagini e concetti che essi contengono a inneschi di due distinte creazioni musicali…
F a d y
“Vi sono molte parole che si usano in un certo significato per il re (o la regina) e che non potrebbero essere usate per altre persone…Il re ha il potere di rendere certe parole ‘fady’, vale a dire di proibirne l’uso sia temporaneamente che per sempre…”
(Last – Notes on the language spoken in Madagascar, J.A.I., XXV, pag.68; cit. in Levy-Bruhl –
Psiche e società primitive.)
Annaspo, come il vetraio con la pasta
incandescente, per condensare le mie idee
sopra la carta ancora bianca e splendente…
Sì, forse non dovrei scrivere né per me né per altri,
dovrei rassegnarmi a languire dimenticando
quali colori si adattano a gioia e a dolore.
Ma: “Tu come stai? – domando – Il tuo corpo
come sopporta l’assalto degli acquazzoni
autunnali che saccheggiano sulle colline
quelle aromatiche essenze dei vigneti
che tanta parte ebbero a plasmare il tuo estro?…
Come stai tu, toccata dai Momenti
Musicali di un Rachmaninoff – di uno Chopin
attempato preciso nelle cadenze
conclusive ma per nulla indulgente
a iterazione dei suggestivi accordi,
eppure caldo di quelle moine materne
dapprima sensazionali e appresso pacate…?-
Un brivido epilettico scuote la mia pelle
per l’ansia di definire ambienti e climi
del mio sostare qui, del tuo laggiù,
del mio progettar la sagoma adatta all’oggetto-
poesia, -quadro, – musica, – scultura;
sono come un selvaggio che inventa, andando
lungo un sentiero ombroso, nomi diversi
per oggetti contigui ma variamente esposti
in sempre nuove stagioni della vita.
Per questo mi giova il ricordo del tuo occhio;
brillante nella gagliarda sopportazione,
impone che sia un messaggio ben ponderato
quello che si decida di indirizzarti:
che non contenga una sillaba del nome
che si dà al tuo malanno!… Tu lo puoi rendere
fady così sorridendo accogliendolo
nelle tue udienze di limpido eloquio
ancora e sempre, come non ti avesse
solcato le bianche carni più di un bisturi!…”
(Roma, 21 settembre 1973)
Aori
Ho annerito il mio corpo; come Aori.
Scintillano i miei occhi; come gli occhi di Aori.
Ho un fiore violetto tra i capelli; come Aori.
Indosso il costume di Aori; parto, come Aori.
Danzo sul pontile a cui attracca il battello; come Aori.
Apro le braccia come Aori dispiega le ali.
Io viaggerò, dunque; come Aori.
Una laguna celeste avrò dinanzi, con soli
puntuali, venti intriganti, aromi energetici
protesi da mani angeliche o forse diaboliche.
Ecco, il battello si scosta; sto viaggiando; come Aori.
Io sto viaggiando, dunque; come Aori; ma: sono Aori?
Troverò felicità o scorno, all’approdo?…
Questa mia civiltà malata mi pesa sù
e accanto, con quei saluti rattristanti dal molo,
dalla finestra, di quelli che rimangono
centellinando pozioni mal drogate,
sbirciando scorbuticamente la clessidra.
E se intono a un tratto un certo motivo
con fremito orgoglioso ricordando
con che puntiglioso studio me ne appropriai,
allora pretendo che ci si adattino questi versi:
“Io sono te, Ludwig, in cospetto della Natura!
I miei vizi e le mie virtù sono ancora quelli
dell’animale mitico da cui siamo promanati.
I nostri messaggi, se altri vorranno carpirli,
perpetueranno la fertilità del mondo!…”
(Roma, 3 gennaio 1974)
Ad Alain Touraine,
con fraternale trasporto,
il poeta da decenni inascoltato presagente.
“. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Femmes chevauchant vagues… ho per tempo ritratto io,
le Femmine che cavalcano le onde,
la esile e volitiva, la muscolosa e provocatrice,
la pienotta ma spavalda, la mastodontica e imperiosa,
la commediante e la lirica, la bizzosa e la risoluta,
la riflessiva e l’elettrica, la frenetica e la elegiaca,
quella con voce sottile ma penetrante e suadente,
quella con voce argentina e inebriante,
quella che lascia appena cadere i suoi monosillabi
fuor della chiostra fremente che la spuma assedia,
quella che con spedita enfasi redarguisce
il comodo permanere nel consueto,
la ansiosa di scambiare confidenza e la riservata,
la puntigliosa e la festosa trascorrente,
la Fakma, gloriosa eroina della Banda Giunchiglia,
sortita dal fourieriano vangelo del ‘Nuovo mondo amoroso’,
in Cnido tradotta prigioniera e infine acclamata Santa
e ora sull’onda eretta come marina sirena,
la Effi Briest in composta mansuetudine
dei suoi trastulli verginali o adulteri
stanata dall’umbratile suo Autore,
con gesto ardito, dall’andito in cui l’avrebbe
la guglielmina etica sequestrata,
la Pentesilea di Kleist e la Leonor di Machado,
la Susanna di Goethe e la Maria Grubbe di Jacobsen,
la Laura di Petrarca e quella di Carew,
Penelope e Molly Bloom,
la Saffo signora del Tìaso, Casa delle Muse,
quella che recita mesto ricordo
di Anattorìa ‘dall’amabile passo’,
e quella maliarda con Faone e, suo romantico
doppio, delusa, in Egeo precìpite…,
Aghesikòra dalle belle caviglie, e,
appresso a lei, Aghidò scalpitante
come un cavallo colasseo dietro a un ibeno
nel partenio di Alcmane, volte a porgere
il manto della notte alla dea del mattino
e, infine, alcionesse energiche, soccorrevoli
per l’ormai tremebondo poeta-cerilo…
E poi Marion capricciosa e Peronnelle intrigante,
le Esther, le Rebecche, le Vanesse, le Varine
sacrificate nel carnet swiftiano,
le Anne, le Federiche, le Lily,
le Carlotte, le Marianne, le Terese
trascorse discrete o invadenti in romantici eventi,
Anne, Charlotte, Emily Bronte e Jane Austen,
Katchen di Heilbronn e Pentesilea,
George Sand in divertito spasso con Clara Wieck,
la Emma in fuga dall’alcova tiepida
del dottor Bovary depresso ed esangue,
le Anne oppresse dal massimario uggioso
dei Karenin, le Kitty benefiche agli ansiosi Levin,
Selma Lagerlof in discorso con Sigrid Undset,
Hildegard di Bingen a far girandola
con la Dame au liocorn, Virginia Woolf ,
stringere la mano di Vita Sachwille-West,
Anna Achmatova discorrere con Lily Brik,
Natascia, cresciuta tra eroico Andrej e sodo Bezukov,
tenere strenua confidenza con Lara,
le Elisabeth, le Alme, le Else, le Olghe
ispiratrici o custodi del frutto del genio,
e, strette per spontaneo afflato nella trama
di una mia creatività effusa in decenni,
sciolto il nesso corso tra i nostri cuori e menti,
le mie Nuvenie sicure, Fàkma, Temelia,
energiche capitane della Truppa,
della Masnada Amabile riuscita
infine vittoriosa nella guerra
all’estenuato regime maschilistico
iterativo, alienante e snaturante,
composto il pattume estetistico – contesto
di aleatorio e precario – nella Discarica,
inastare il vessillo femminista
ornato del fourieriano papillon
sul megalopolitano Municipio…:
Eutilia, Isocraè, Kenòtes, Gumnè,
Pelarghèia, Licìska, e tutte le altre…
E poi tutte le bene – o anche mal – giudicate,
le anelanti a vendetta del loro equivocato,
le appena appena placate dal tardivo verdetto,
tutte le arse un tempo dopo subite
biliosa tolleranza e stremante incomprensione,
le frustate, le lapidate, le mal commerciate,
le saziate del pregio fatto del loro gesto,
quelle di cui ho conosciuto nome e trama vissuta,
la tua Melencholia, Albrecht, la tua
Maddalena, Luca, in sacrale danza.
E poi Miriam Makeba, quella che cantava
con voce-barrito di elefantessa ctonia,
verace genitrice di tutte le razze e sessi,
gestora versatile di tutti gli strumenti e timbri,
e con lei la vecchia contadina il cui gusto Po Chu I
tenne a misura del merito dei propri poemi
appena composti, Euridice costretta
dall’empito protagonistico del suo Orfeo
a vagare per sempre nel regno delle ombre,
“Elena destra a offrirsi al brillante Paride
mentre una mite Brigida inforna patate,
mentre una ligia Fatima snocciola datteri,
mentre una razionale Dorothea
sprimaccia la biancheria calda dell’alcova,
Sofonisba trascorre con leggerezza
da segreti imenei a nozze plateali…”,
Arianna abbandonata dall’opportunista Teseo in Nasso,
soccorre il Dioniso Barbato di Boeto, e
ora va sottobraccio con la mia madre terrestre,
la prolifica, “la spesso concupita
negli incestuosi, innocenti, infantili sogni”,
Trotula salernitana, medichessa in patria,
accorta consigliera di puerpere in terre
boreali e intesa mitica “Dame Trote”…,
Eloisa sensuale e spavalda nel saio forzoso,
Margaret Roper che serra tra le braccia
il cranio ossuto del padre Thomas More
riacquistato dal boia e tenuto in custodia
per più decenni nella dimora verginale,
e poi per sempre nel proprio stesso avello… ,
Diane Fossey paladina dei superstiti Oranghi,
nostri vilmente falcidiati Archetipi;
tutte le Olghe le Sonie le Ludmille
del romanzo sarmatico, e le Viridiane
del romanzo cantabrico ed iberico…
Comparse come in vortice nella mente insonne
che l’arsura estiva aveva frustato
tutte si lasciarono mansuete disporre
nel battagliero, nel rivoluzionario syntagma,
sulla tavola lignea dall’immacolata imprimitura,
mio Golfo di Guinea, mio Mar di Ohotsk,
mio Mar di Barents, mio Golfo del Bengala,
mio Golfo del Messico, mio Golfo di Carpentaria,
mia Baia di Hudson, mio Mediterraneo!…;
e ben le vidi con slancio impegnarsi
a fustigare la colpevole inerzia
dei loro antagonisti dalla bocca bavosa,
andanti con passo tardo e neghittoso incedere,
io tuttavia incitandole: “Orvia, replicate
voi talentuose, voi talentuose, alla Sibilla,
alla Sibilla che stremata farnetica
Apozanèin, apozanèin zèlo!… quando
il Goliardo Europeo in vacanza lussuriosa
e inconcludente, abradente e dispendiosa,
la interpella sornione dalla pagina
del petroniano Satyricon: Sìbulla, ti zèleis?…
Ora che finalmente scarseggia il carburante
fetido che manteneva in insonne frenesia
i motori incamiciati da guarnizioni
nichelate, splendenti, come dettava
il Manifesto folle prima che
il Destriero, irritato sulla dolina
dal funebre frastuono delle bombarde,
nitrendo disarcionasse e calpestasse
il corpo dell’Azzardoso Futurologo,
esso con selvaggia energia sconfiggendo
la frenesia prometeica, lo sperpero villano…
Ah come bene serrano tra le cosce
le onde e le governano! Ah, come destramente scivolano
sui pentagrammi ondulati delle onde
le mie Femmes, come intese a placare
gli Oceani che la vostra civiltà grassa, durata
fetida e petulante per più di un secolo,
ha infettato! Ah, come bene li sospingono,
gli Oceani gonfi di nutriente plancton,
a specchiarsi in ritemprante assopimento
nel lindo bacino argenteo del ventoso Egeo
che crepita di stridi di inebriati alcioni
discantanti nel modo misolidio,
in ben sostenuto ritmo…
Ecco; ho spinto nel flutto la nassa in cui per spontaneo afflato
erano state congiunte per anni tra loro e con me;
e subito la trama si dilatò come una immensa ragnatela
sui flutti, sicché i mari sfociavano in oceani,
le onde si assommavano in tsunami,
l’acqua che un tempo e per gloriosi secoli
era sgorgata dalle rocce pindariche –
àriston mèn udor!…àriston mèn ùdor!…nel mio orecchio
strepitando… – finalmente si mondava
delle morchie gommose, del fetido putridume
che il secolo frenetico e avventuroso,
che la dissennata intraprendenza
dell’altro Genere e Sesso ci aveva
spremuto e con pazza ostinazione diffuso,
intanto nell’etere snebbiato svolazzando
le guarnizioni nichelate di ormai dismesse astronavi,
sui saldi basolati di continenti ed isole
mandrie di vigorosi puledri nuovamente caracollavano…
Così, aderto sulla sua sponda occidentale
nella innocente nudità infantile,
spinto lo sguardo sul più remoto orizzonte,
scorgevo nell’etere limpido levata
la Antipode Montagna con ancora
ancora impresse le orme di Aborigeni
eretti a sfida imperterrita, dall’Alchera,
di tanti adepti biliosi della Setta Scrivana
e Ruffiana, gestora di crediti e premi per asfittici
poetastri, tendevo rasserenato la mano
alla da sempre Beatificante e Beatrice
questi versi esponendo come dovessero
esser rivolto armonico della triade dantesca,
epigrafe impressa sulla Porta di Vita Nova,
musica di introibo all’Altra, alla Nuova,
alla Muliebre, alla Naturistica Civiltà!…
(Cori, 6 aprile 2012)
Sabato 17 marzo 2012. Rinvenuti in fascicoli contenenti gran quantità di schizzi riportati dalle diverse trasferte nei decenni passati, ho trascritto qui di seguito questi versi datati Cori, domenica 15 marzo 1998 (e pertanto coevi ai molti altri datati 1998 e dati a stampa con “Da Alchera alla City”…).
Forse attuando una tale religione
Traverso con energico passo senile
la fresca ombra del cupo querceto
scendendo il versante est della ‘Valle d’Inferno’
nel perfetto silenzio del meriggio;
e quando sull’altra sponda riconosco,
sovrastante dall’alto come una enorme
mascella, il colossale corrugamento
di bianca pietra in strati ben simmetrici
e mi pare che esso addenti la maceria
fogliare e granulare insidiosa e infida
del bruno camminamento, ne traggo immagini
che sento adatte a un colloquio di Consanguinei….
La linea scintillante del mare lontano
frecciato dai raggi solari si insinua nel vertice,
base di un orizzonte appena affiorato;
e in quella meridionale librazione
quasi si fanno accessibili i sentori di Thule,
trasudano memorie di imprese fiabesche,
ermetico tesoro della Grunland –
o forse reali e fulgenti in un cosmo ancor sano
serpeggiano tra mie memorie di una degenza
cittadina durata come esilio,
tardiva redenzione del nostro essere
tenuto in assedio asfissiante da astrusi Legali?…-
Penso: “Per quanto indotta dal bisogno
di garantirsi l’alimento quotidiano,
la faccenda dell’uomo si dovrebbe
tenere sempre sul nitido confine
delle interne esigenze della Natura;
orto e frutteto, vigna ed uliveto,
il calcolo del profitto e il lussuoso sperpero
non dovrebbero mai giungere a offendere
lo zoccolo pietroso del preesistente!…
Forse attuando una tale religione
avremmo ottenuto al Mondo ed alla Specie
tempi più lunghi e salute non truffata!…”
(Cori, Monte Lupone, domenica 15 marzo 1998)
a Massimo Pompeo
dopo assaporato ‘ex tabulis maritimarum’…
Ah, Massimo Pompeo, questi tuoi cognomina
che in classica grandiosità risuonano
mentre con opera insonne perseverando
sporgi il volto barbuto – ma: sorridente!…- di Vulcano
protendendoti sopra il tavolo o il torchio
dal tuo antro percorso dai bagliori
della fucina in perenne alimento!…
Là sorgono a vita le tue ‘carte nautiche’
dove sottili linee solcano tinte iridescenti,
il legno palpita come lava emergente,
l’esperta mano il favoloso rende concreto:
terre che si dislargano nel mare,
mare che circuisce e rastrema le terre,
Europa che coglie fiori sui prati di Tiro
e Giove che, invaghito di lei, mutato in torello, l’abbranca…-
il Dio che dialoga con la sua sakti, Shiva con Durga?…-
Così il tuo gesto in me ridesta il ricordo
di quella mia giovanile segregazione
spontanea, nella casa al mare – quella che
la trancia urbana del familiare clan
per uno stizzoso capriccio disertava…- e
di quel mio autoritratto a penna in posa orgogliosa
che in splendidi meriggi vi tratteggiai,
con temerari versi in margine – inconscio groviglio
ammaliante, rifletto oggi, di logica tantrica?…-,
ma anche del misterioso ‘cenno’ che,
– nella tregenda del mio corso maturo –
dalla cima pietrosa del Monte Lupone,
scorsi volgermi Ulisse dalla rupe del Circeo
in uno splendido mezzodì di aprile…
Dunque ora so perché avviene e come avviene
che ci si offra concreto il favoloso!…
(Cori-Fontana Mandarina, 14 marzo 2012)
Lillipuziana pantomima delle Tricomonadi
Sbloccati i rugginosi boccaporti
del Vascello Civile in bel diporto
verso altri e più temerari futuribili
(stazioni stratosferiche, cosmici imperi)
riafferro estro tono e timbro della
lillipuziana ‘Pantomima delle
Tricomonadi’, dei minimi in tripudio
ora festoso tra i due regali pubi:
della Sabea Bilqìs e di Salomone
intesi all’esclusivo festino erotico
e alla fusione dei giganteschi imperi.
Ballata-pantomima delle Tricomonadi
Semicoro primo
Noi, le ‘candide’ giulive
nei più sordidi angiporti,
noi parenti in buona stima
di quei tarli che si impinguano
del buon legno degli scettri,
tricomonadi pruriginose
instancabili flagellanti,
disinvolte spietate amazzoni
entro lande microscopiche
percorriamo immensi spazi,
recapitiamo sentenze
inappellabili, ergiamo
capestri per lente agonie.
Semicoro secondo
Noi, le ‘candide’ giulive,
noi consorti in buona lena
di quei vermi che corrodono
con impegno quotidiano
i diaspri ed i cammei
sfolgoranti sulle fronti
in diademi ed in corone
di arrivisti dominanti,
tricomonadi pruriginose,
staffilatrici instancabili,
siamo l’unica speranza,
siamo l’ultima risorsa
delle plebi che voi opprimete.
Semicoro primo
Noi, le ‘candide’ giulive
tricomonadi pruriginose
siamo l’unica speranza,
siamo l’ultima risorsa
delle plebi da voi asfissiate
con il fumo del vostro orgoglio,
delle plebi da voi smagrite
con rapine e con balzelli,
delle plebi da voi schiacciate
con il peso del vostro arbitrio
negli spazi congegnati
per pacifica convivenza.
Tutti
Voi, diretti a mète astrali,
pretendete che il viaggio avvenga
tra festini lussuriosi;
stivati in lussuosi carriaggi
i preziosi e i superflui ornamenti
da esibire al trionfale arrivo
al Supremo Sornione Egemone,
trascurate l’esatto conto
di quegli infimi naturali
per cui corpo e regno durano
in organico complesso.
Opportuna e tempestiva
dalla Cattedra Biologica
giunga dunque la lezione
di cui siamo strumenti e araldi!
semicoro primo
Noi, le ‘candide’ giulive
nei più sordidi angiporti,
noi parenti in buona stima
di quei tarli che si impinguano
del buon legno degli scettri,
tricomonadi pruriginose,
instancabili flagellanti,
disinvolte spietate amazzoni
entro lande microscopiche
percorriamo immensi spazi,
recapitiamo sentenze
inappellabili, ergiamo
capestri per lente agonie.
Tutti
Noi dall’ilo del vostro consistere
organico, da dentro le cripte
del vostro viscido corpo
quand’anche odoroso, dal tetro
scantinato del vostro casamento
cellulare, dai retrattili budelli
in cui tenete con stentorei strepiti
i vostri festini erotici, brindate
con sperma e sfegma, noi valletti e araldi,
coppieri sgattaiolanti gratuiti e anonimi,
giungiamo in processione salmodiante.
Con mosse furtive e destre ci sistemiamo,
al termine dell’orgia, sulle mucose
delle stremate vulve, dei membri affranti,
facciamo drenaggio e remora dei vostri
pretenziosi programmi di orgoglio e imperio!
Semicoro secondo
Noi, le ‘candide’ giulive,
noi consorti in buona lena
di quei vermi che corrodono
con impegno quotidiano
i diaspri ed i cammei
sfolgoranti sulle fronti
in diademi ed in corone
di arrivisti dominanti,
siamo l’unica speranza,
siamo l’ultima risorsa
delle plebi da voi asfissiate
con il fumo del vostro orgoglio,
delle plebi da voi smagrite
con rapine e con balzelli,
delle plebi da voi schiacciate
con il peso del vostro arbitrio
negli spazi congegnati
per pacifica convivenza.
Tutti
Più nel tempo si protende
la durata della specie
e più labili, più effimeri
gli individui vi hanno posto.
Si frammenta in illusioni
e in promesse inaffidabili
l’orgogliosa preminenza
dei più destri nella mossa,
manigoldi intraprendenti
o ben pingui ereditieri.
Ma al puntuale resoconto
di decenni, secoli, ère,
non compaiono vessilli
né si accendono colori
sulla truppa che ora ha smesso
tanto lagni che sussiego;
reca torpida carcassa
in identico squallore
chi poteva e chi soggiacque!
(Cori, 22 dicembre 2011)



