Vado lungo la pendice del monte.
Tutte le evenienze possibili sembrano protendere
tentacoli da oltre la linea netta del displuvio;
e sento che ribolle e si agita nelle mie vene
lo stesso impulso che dovette invadere le vene
dei due briganti estremaduregni –
l’uno, il seviziatore del mite Montezuma,
l’altro, il massacratore spietato
del mite Atahualpa -, quando decisero
di puntare al tesoro degli Aztechi,
all’oro di Potosì, della leggendaria Golconda
peruviana.
Avanzo nel gelido inverno
in spazi ora limpidissimi ora tempestosi,
ma non temo altezze stremanti,
turbini di pioggia o di vento.
Giunto vegliardo in cima all’erta
mi trovo dinanzi a una porta
rilucente di iridate faville.
Posso volgere in suoni ogni parola del mio poema,
sposare la voce che legge con quella che canta.
Anche per me forse comparirà, a giorni,
il figlio del vostro dio nuovamente
su questa terra, e qualche vagito
filtrato nella sua voce argentina sarà
la chiave con cui si potrà finalmente
aprire l’ultimo forziere dei miei estri.
(21 dicembre 2007)