Anch’io sono attento alla voce delle pernici,
kakkabìdon òpa sunzèmenos (1), Alcmane;
intendo bene il loro espandersi, rispondersi,
afferro il senso della loro elementare prosodia;
da esse ho appreso che il nome delle cose
è sonora onomatopea del loro esistere,
che ciò che ben consiste nella natura –
cosa anche inerte o dinamico esperiente –
fa che trabalzi il suo titolo sonoro
ad ogni volta del rondò vitale.
Ma questo per me avviene in un mondo già eroso
da un fitto stuolo di miei simili vanesii,
e dunque per più vibrante virtù del me singolo
che rischia incomprensione, dileggio, equivoco;
e dunque dovendo disporre un severo rituale
che recito quando, salendo la balza, incontro
il grande masso sospeso, il possente albero,
spigoli e fronde che intonano poemi
se un vento provocatore li tocca o attraversa.
Dinanzi a tre giganteschi faggi, ieri, mi sono
inginocchiato; e ho reso omaggio alla loro possanza,
al loro vigore: “Gloria a voi Venerandi! – ho intonato
a voce spiegata, palpando la scorza rugosa,
poi la propaggine estrema di uno dei loro rami
che pencolava nitida nell’aria montana –
Degnatevi di accogliere la lode che del vostro
disinteressato presidio di questi luoghi elevati
fa un modesto usufruttuario di quei benefici
di cui anche godono miei simili irriconoscenti!..”
E poco più innanzi, scorto un nuovo virgulto
emergere verde oltre lo sfasciume sulla cicatrice
di un altro enorme tronco là dove, per anni,
usavo trascorrere con devota compunzione
tra altri giganti durati raccolti in un avvallamento,
come una famiglia di titani: “Che l’erede
di cui già scorgo la sagoma snella stagliata
contro l’azzurro intenso del cielo limpido possa
crescere e durare decenni come il padre!…” ho
augurato, di nuovo ammirato prosternandomi.
Anch’io dico, Alcmane: “C’è, sì, una punizione degli dei;
o d’òlbios òstis èufron amèran diaplèkei àklautos. (2)
Ma so che molto tempo è trascorso dal tuo consolo.
Vedo che i capelli di tua cugina Agesicòra
più non fioriscono come oro puro, nel candido viso
la gota appare sformata dal gommoso bonbon,
né più così belle appaiono le sue caviglie.
E Aghidò che tu dicevi seconda per bellezza,
correva come un cavallo colasseo dietro un ibeno,
ora farfuglia e zoppica, usa chiassosi cosmetici.
E tinge i capelli con tossici intrugli Nannò,
e la bellezza di Arèta è sfumata in un lustro.
Né Tulachìs né Cleesitèra hanno più il garbo di un tempo.
Eppure non lugubre né funesta, credimi, è la mia
visione del mondo in questa stagione. A me sembra
che quanto rendeva leggiadre le tue coreute una volta
ora fa uniche amabili quella che ha nome…Arrète
e quella che già chiamavo Edairetè, sua sumpàiktria… (3)
E’ ben per esse che duro nel mio corso equivoco
e anche azzardo questo stile nuovo, ironico e mite.
(21 aprile 2005)
1) attento alla voce delle pernici
(2) beato chi è saggio e trascorre il giorno senza pianto
(3) compagna