All’alba (la prima luce sogguarda appena
dalle sconnesse maglie dell’imposta)
escogito un tiro burlesco con cui impallare
con l’autodidattico mio hablar espanol
quel frenetico transfert – e poi imprevisto! –
che istiga Maria Teresa, ora, a stanziarsi
per anni, e magari per sempre, en ciudades ibericas.
Poi, quando fremente si staglia il cinguettio
dei pennuti sfreccianti tra gli umidi olivi,
mentalmente sorrido compiaciuto
della finale battuta con cui svelerei,
tra superflue o improbabili agnizioni,
chiudendo il telepatico colloquio,
il trucco del mio affettuoso dispiacere.
Sì, Adonis, “la scrittura, in arabo, insegna
che non è un luogo la patria e non si situa”
in nessuna casella del nostro atlante,
“essa insegna in che modo si può dire:
il mio paese è il mio corpo”.
Ma ecco, io
avverto quale spasmodica prensilità
scatena, in tutti i luoghi in cui la portano
gli individui e le orde, la parola,
come essa afferra e avvinghia paesaggio e humus,
si innesta nella pianta e nell’animale,
patina l’atmosfera e la montagna
nel Mexico di Hernan Cortez e di Pancho Villa
e fin nelle più remote Mindanao…
Penso alle saponate mediterranee,
atlantiche, pacifiche, di una
hispanidad già cantabrica e latina,
agli essenziali crismi ovunque flessi
nel tempo per proteggere gesto e individuo,
marchiare di rosso orgoglio i loro perimetri.
Penso a patrie violente ed aggressive
che le encicliche islamiche e cristiane
camuffano con ireneici dettati.
Dico: il trascorso storico non preme e frattura?
Non hanno forse i moriscos e i marrani
una progenie sparsa in lande boreali?
Non vanno per strade nebbiose, a Londra e a Chicago,
sciiti maghrebini coperti di lana?
(Cori, 20 aprile 1997)