“Ho volto in suoni – che
mi basterebbe tu sola riconoscessi
ben congruenti con quel che una volta avvertisti,
trepidando come una madre a cui un severo giudice
abbia sottratto la figlia appena concluso
l’allattamento accompagnando una delle
tue sumpàiktriai all’altare di Afrodite… -;
quell’organico complesso che,
pur reso quasi nudo superstite dal rodio del tempo
e dalla furia assassina delle orde barbare,
transitate per secoli di storia,
ho scorto troneggiare come erma spavalda,
nel tuo, nel tuo “Imeneo”, Saffo.
Nitore di marmo pario del tuo lirismo castigato
e, anche, un tantino ironico; nitore
che abbacina in questa disperata stagione del Genere,
nitore che già abbacinava
– eppure altrimenti e ben più utilmente…-
me già giovinetto, insofferente nella
asciutta didascalica della scuola,
dei maestri insinceri, dei compagni
destinati a carriere di borghesi smemorandi…
L’ho volto in suoni, io, in questo mio tempo
il tuo Imeneo, Saffo, io, in questo mio tempo
proteso testardamente e avaramente
verso l’ammasso informe
di assai impropabili futuri,
in questo mio tempo
dimentico delle proprie radici ancestrali e cosmiche.
L’ho volto in suoni, in questo mio tempo, io,
costretto a dire del mio trasporre Saffo in suoni,
con persone che più non hanno notizia di una Saffo…,
io giunto al tratto estremo di un mestiere
tenuto per decenni in sorvegliata misura
di emozioni e dottrina, e fatto infine
capace di ravvisare come levita
nella trama dialettica l’estro poetico,
come sul materiale supporto la figura
guarnita di icastica enfasi dal pittore,
mentre interpreta il fatto addita l’idea,
e anche nel compassato colloquio civile
inconsciamente travasiamo quanto
suscita nell’animo nostro l’esperienza
di quello che altri crearono al colmo di un estro
che un Dèmone sempre rende tremendo e incoercibile…”
Senti la truppa dei ritardatari?
Qualcuno che da lontano avverte,
intanto altri frustando le torpide giumente:
“Stiamo, sì, stiamo per giungere, stiamo!…
Che vuoi, sempre, si sa, nella comitiva
una o due squinternate si trovano
ancora affannate nella cerca del pettine oppure
dello spillone prezioso da esibire; e proprio
mentre le più sbrigative e assennate già
hanno occupato il posto più comodo sul carro,
e smaniano… Ah, come vorremmo
già esser giunti, noi, già esser presi
nel fervore dell’attesa, e anche noi intesi
a spronare l’invelenito carpentiere:
”Più sù quel benedetto architrave, tràilo!…
Deve passarci sotto lo sposo, sai, uno che
è più grande di un uomo grande, è uno che
pretende somigliare ad Ares! (e chissà in quale
progetto di maschilistica schiavitù
ha già inserito il nome della meschina che
intanto freme in libidinosa attesa del rito, lei,
appena ieri sgusciata fuori dal tuo partènio, Saffo!…)
Ah, sì, il musicale gesto è mio, Saffo,
e se bene si adatta al persuadente
tuo discorso come ingegnosa impresa
questo è perché si transustanzia il sentito
sprizzato dalla vitale materia cosmica
in altri possibili media e in forma scorre
nella vena alessandrina di un altro poeta oggi!…”
(Cori, 16 agosto 2012)