Inveisce contro il suo pelo caduco
di vegliardo, che ora resiste al soffio
con cui tenta scacciarlo dalla tela
invasa, intanto, dal pelo del suo pennello –
pelo di mite animale, operoso e tenace –
con tinte sostanziose, con tratti veementi.
Ma poi, quasi assolvendo il capriccio innocuo
di un suddito, di un servo, di un infante,
si compiace pensando che il dispetto
vale come conferma che è spartita
in omogenea densità, nel corpo,
quella tenacia per cui è capace ancora
di imprendere qualcosa e indicarne il senso
il despota mentale che questo annota:
“Aretàs ghe mèn ou minùzei
brotòn àma sòmati fèngos,
allà Mousà nin trèfei!”… (1)
(9 luglio 1999)
(1) “…ma la luce della virtù non diminuisce con la forza del corpo sela Musalo nutre…” Bacchilide, Epinicio III, 7)