Già in letto, con gesto destro della mano,
ridotta flebile la voce chioccia
di un certo speaker che con piglio frivolo
preannunciava alla radio canzoni frivole
accompagnate da chitarra e banjo,
e con bizzarro impulso richiamata
l’immagine del padre, fustigatore
dei suoi melismi infantili, a reiterare:
“Non dant carmina panem!…Ma, di’, scippato
al mio puntiglio il deprecato pianoforte,
per caso pretenderesti chitarra e banjo?…”,
l’ariosa sceneggiatura si intese a tessere
convinto che si debba incoraggiare
a porsi su vie più utili al comune interesse
l’ambascia del vivente in astrusi climi
e quella del poeta in consunte tesi.
Aveva, dico, evocato il suo padre estinto,
e orante in parlata autentica e antica,
e con verve isolana di molto esperiente;
e dunque si pose a volgere in compiaciuta
autofustigazione così il dettato di lui:
“Chu chiddu chi sta succerennu hai autru chi
pinsari a chitarra e banjo pi’ fari ciantona!…”
E appresso, sorridendo, ruminava,
intanto distendendosi tra le coltri:
“Ecco, così giuocata argutamente
l’avara deprecazione, nei miei cordiali
sogni sprofonderò questa notte ancora,
vegliardo riconciliato per mia destrezza
con quel padre vegliardo rimasto scettico
su quel che è pregio o merito del carmen;
e forse neanche stanotte trapasserò…”
(Cori, 9 settembre 2012)