Parlo con gli alberi, io;

io li ascolto parlare e cantare

nel silenzio austero della mia montagna,

quella che ho a lungo esplorato celandone

le vie intime all’escursionista pettegolo,

io, miles a giusta ragione gloriosus

dell’autentica passionale ecologia,

al miles gloriosus dell’ambigua ecologia.

 

Sì, io parlo con gli alberi, io!

Io, sì, posso parlare con gli alberi,

posso ascoltarli mentre parlano e cantano

nel silenzio ieratico della mia montagna.

Giacché gli alberi parlano e cantano,

fra loro; e con me, benevolmente accessibili.

Essi parlano e cantano, gli alberi,

nell’aria tersa e balsamica della nostra montagna,

in modi che in qualche senso somigliano

al nostro parlare e cantare sporadico;

ma essi parlano e cantano con un fervore spontaneo

che il nostro parlare e cantare ha perduto per sempre.

 

E anche gli uccelli,  parlano e cantano

nell’aria tersa e nutriente della nostra montagna,

in toni che gli alberi comprendono e apprezzano,

più come il delfino e l’orca parlano e cantano,

per loro benevolenza, dall’onda ancora nutriente

in qualche ansa del già violato Oceano…

Essi, gli uccelli, parlano e cantano

nell’aria tersa e nutriente della nostra montagna,

più come il lupo e l’orso parlano e cantano,

per loro benevolenza, dal bosco ancora prodigo di frutti

in qualche landa della troppo profanata Terra…

 

Sì, gli alberi e gli uccelli parlano e cantano,

tra loro, e, per loro benevolenza,

talvolta con me e per me.

Ma l’albero curvato dal vento

proprio alla svolta dell’erto sentiero –

manufatto di un antico viandante

forse persino scalzo, forse ebbro

di gioia panica, e in bacchica ascesi… –

canta un motivo di dolorata nostalgia, ormai;

quello cresciuto nel folto della foresta,

là dove cessa la traccia dell’umana invadenza,

canta con foga sarmatica motivi

borchiati da intrepide dissonanze,

ammonisce e quasi minaccia l’estraneo

mentre il vento ne percuote la fronda;

e, quando lontano rimbomba il tuono,

la schiera dei suoi compagni solidali

intona un coro che inebria e stordisce,

inebria e stordisce più me che, per coglierne il senso,

mi sono come tramutato, trangugiando il mio cibo

con foga bestiale, e la formica nutrendo anche

delle sue briciole che quello stesso vento

intanto veniva spargendo al suolo,

nel piccolo pezzo di prato, microcosmica

Amazzonia non ancora o forse non mai disboscata,

vergine Natura che per alcuni istanti,

come anch’io librato nell’azzurro,

ho sogguardato dall’alto…

 

(Monte Lupone, 10 maggio 2011)