Si leva nel cuor della notte, e orina.
Pensa: “La tua impoetica e antiletteraria
mania di temerario verseggiatore
non riuscirà, per caso, a render tema
di un poema anche una simile occasione?…”
Così, per provvidenziale consonanza,
pensare ora ad Ea, mesopotamica
deità che, reclusa in profonde acque,
veneravano gli A-su, gli austeri medici
fautori dei fluviali lavacri intesi
come divine offerte per la salute
dei viventi quassù in rischioso approdo…
Acque che nell’inguine si radunano,
acque che dall’inguine si diramano,
dall’inguine glorioso perpetuatore,
sorgente inesauribile e foce del vivere.
Rammenta come nei suoi settantacinque anni
ha sempre curato con scrupolo il ricambio
della idrica componente del suo organismo.
Golose ingurgitazioni, appaganti minzioni
in tutto il completo arco delle ore
anagrafiche o astrali, canoniche o ermetiche:
levate infantili in silenzi rutilanti
di stelle, sibilanti adescamenti
di nottole…; scrosci di ragazzesche cianfrusaglie
in stanze di familiari adolescenti
già quasi camerate di una truppa
in caserma, tra oppressioni disparate…;
e poi, durante il malefico exodus, litania
rissosa nel rigore di spazi aperti,
come sfuggendo a occhiute censure
di megere grinzose e inappagabili…
Come un romeo erto sul valico alpino
riguarda compiaciuto i piani trascorsi,
si volge fiducioso ai prossimi passi
obbligati. “Il sonno – dice – avete
assomigliato alla morte. La veglia soltanto
per voi è vita. Dunque io quante mai volte
ho nei due sensi varcato il loro confine
entrando, uscendo, e rientrando tra ragnatele
di oniriche apprensioni e seduzioni?
E’ forse per tal mestiere di promeneur
distratto e disincantato, soltanto aggiogato
alle esigenze dei suoi ingredienti minimi
che al complesso corporeo ora svettante
sul putrido consorzio del senso comune
appare immune da fastidio o angoscia
il marchio inevitabile della morte?…”
(Domenica 17 agosto 2003)